A scuola di declino
La mentalità anticapitalista nei manuali scolastici,
Recensione al nuovo saggio dei professori Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri
“Non mi curo di chi scrive le leggi di un Paese... purché mi lascino scrivere i suoi manuali di economia”.
(Paul Samuelson, premio Nobel per l’economia, in apertura all’introduzione di A scuola di declino)
Pensiamo ad un’aula universitaria, una di quelle immense stanze “a gradoni” che costellano il nostro immaginario. Supponiamo anche che sia piena, fatto che si verifica generalmente solo per le prime due settimane (ad esser generosi). Siamo al corso di storia moderna del professor Bassani, che con dovizia ha illustrato la formazione degli Stati nazionali, nati dall’intelligenza, dal coraggio (“imprenditoriale”, potremmo dire) e dalla pervicacia di singole figure. Personaggi come una ragazza, Isabella, che rovescia dal trono il fratellastro con l’aiuto dei suoi feudatari infedeli e comprende così come siano essi il problema fondamentale della debolezza della corona castigliana, o, ancora, Margherita Beaufort, una nobildonna inglese religiosa al limite del fanatico ma visionaria, convinta che il figlio, manco inglese bensì gallese cresciuto in Francia, tale Enrico Tudor, possa pacificare secondo un disegno divino il trono d’Inghilterra, mediante il matrimonio con una principessa della casata rivale degli York.
Ecco, nel mezzo di queste vicende, storie private e personali degne di essere trasposte nelle migliori serie televisive (“Il Trono di Spade” trae infatti spunto dalla Guerra delle Due Rose tra York e Lancaster), si alza una mano dal fondo. E’ uno studente brillante, il quale chiede quali siano i mutamenti economici che hanno portato alla nascita degli Stati nazionali.
Bassani non si scompone, spiega che lo Stato nazionale ha un’origine squisitamente principesca, politica e addirittura familiare ed aggiunge che la storia moderna si configura come un’età in cui i rivolgimenti culturali, filosofici, politici precedono quelli economici. Il sotteso della domanda è chiaro: la teoria del materialismo storico, la lotta tra forze economiche che secondo Marx metterebbe in moto la Storia. Alla domanda di Bassani, lo studente nega di aver qualsiasi simpatia per quella teoria, ma che la professoressa di storia del liceo continuamente spiegava che dietro a un fatto politico c’è sempre un cambiamento economico che lo precede cronologicamente.
E’ da episodi realmente avvenuti come quello qui narrato che Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri prendono le mosse per scrivere A scuola di declino (edito da Liberilibri), un agile saggio che scandaglia i testi scolastici di storia e filosofia per capire perché intere generazioni di giovani arrivino all’università (per i fortunati che ci arrivano) con pregiudizi e nozioni parziali sulla Storia, specie quella più recente.
Prima di entrare nel merito del volume, una nota di apprezzamento va rivolta al metodo scelto dagli autori: in un’appendice finale sono citati tutti i testi di scuola consultati, mentre nel corpo del volume si è voluto evitare un atteggiamento che poteva apparire delatorio. In pieno spirito liberale, infatti, si sono riportati nel corpo del libello precisi estratti per sostanziare le tesi cardini del saggio, rimandando tuttavia al lettore volenteroso l’associazione puntuale con i testi scolastici, tutti riportati alla fine del libro in rigoroso ordine alfabetico.
Il libro si struttura in tre “movimenti” sui quali si basano le radici ideologiche del disastro italiano (come titola l’introduzione).
La prima parte, La Rivoluzione industriale: l’inferno arriva sulla Terra, è volta a smontare la maggior parte dei luoghi comuni che dalle scuole medie ciascuno di noi sente risuonare circa la più importante rivoluzione economica della modernità. La vulgata comune ritiene che la Rivoluzione industriale sia avvenuta in Inghilterra in conseguenza di un fatto puramente economico antecedente, cioè la Rivoluzione agricola (in conformità, come è facile notare, al materialismo storico di Marx). In particolare, la sussistenza garantita dagli open fields nel Settecento sarebbe venuta meno a causa del fenomeno delle enclosures, che avrebbe fornito manovalanza a costo irrisorio per le grandi fabbriche urbane. Il corollario che ne deriva ha un duplice volto: da un lato, un passato mitizzato, rousseauiano, per così dire, di agricoltori liberi, felici di vivere in comunità armoniche e bucoliche, come se quelle stesse “avvertenze” e demistificazioni che i libri di latino riservano alla propaganda augustea, a proposito dei “Titiro” e “Melibeo” di Virgilio, non si dovessero applicare ai contadini e pastori del Settecento inglese; dall’altro un futuro apocalittico, segnato dallo sfruttamento di donne e minori e proiettato verso l’inquinamento. In questo, a parere di chi scrive, gioca un ruolo anche la letteratura inglese proposta ai liceali, tutta incentrata sulla “fuliggine” delle atmosfere urbane di Dickens e sul “compromesso vittoriano”, descritto come la massima espressione dell’ipocrisia della classe borghese capitalista.
Lo sforzo dei tre autori di A scuola di declino non è confutare le problematiche sociali ed ambientali di un tale rivolgimento economico, quanto inquadrare le esternalità negative della Rivoluzione industriale in un bilancio complessivo del periodo in oggetto. In altri termini, si tratta di rendere giustizia della Storia tutta intera, senza privilegiarne solo alcuni aspetti.
Anzi, a ben vedere, si tratta di ricostruire la Storia per come è avvenuta: gli autori citano infatti studi storici atti a dimostrare che, benché non recintati, dei “campi aperti” era ben noto il proprietario prima del fenomeno delle “recinzioni”. Viene inoltre da chiedersi il motivo per il quale, se la vita agreste era davvero così piacevole, intere famiglie abbiano deciso di trasferirsi senza alcuna deportazione in sozze città, così da essere sfruttate dagli industriali.
Se quindi non c’è stata nessuna causa vincolante di ragione economica, come è potuta avvenire la Rivoluzione industriale in Inghilterra? Ancora una volta, per ragioni politiche: il Regno Unito era allora un unicum, unico stato con una monarchia costituzionale mentre lo standard del continente era l’assolutismo. In altre parole, la corona britannica assicurava alcune libertà fondamentali che altrove erano negate: basti pensare all’ habeas corpus (perché nessuno intraprende in un luogo se non è sicuro della propria incolumità), alla proprietà privata (come è ovvio) o alla pressione fiscale minore di tutta Europa (grazie proprio al Parlamento, in grado di mediare le pretese di tassazione del re con gli interessi dei ceti produttivi rappresentati nella Camera dei Comuni).
Perché, tuttavia, sussiste questo paradosso, per cui degli insegnanti di storia che hanno frequentato licei e facoltà dove l’economia e il diritto non si insegnano, continuano ciononostante a evocare la storia economica come “primo motore immobile” di tutta la Storia?
Si entra così nella parte seconda del libro, la più florida nel riportare interi capoversi dai manuali scolastici. Il titolo è autoesplicativo:
Marx, Marx e ancora Marx: un solo autore spiega la storia, la filosofia e la società.
Ciò che emerge assai sorprendentemente dai testi scolastici è la dichiarazione di attualità del pensiero del filosofo di Treviri, specialmente per quanto riguarda la trattazione economica, piegata talvolta al limite della manipolazione. Nei manuali si spiega la teoria economica dell’equazione “valore-lavoro” per introdurre il concetto di plusvalenza e di sfruttamento, così come si dà rilievo al “feticismo della merce” che altro non sarebbe se non la riproduzione sul mercato dei rapporti di forza nella società. Si sorvola quindi sul fatto che il prezzo, come è noto, è legato in realtà a dinamiche di domanda e offerta (cioè alle teorie messe in campo dai marginalisti) e si dà un valore metafisico ai beni materiali, con tutto il portato che ne consegue.
In altre parole, sostengono i tre autori del saggio, sarebbe come se le teorie tolemaiche fossero presentate allo studente come ancora valide e non come un capitolo della storia della conoscenza ormai concluso (si pensi all’erroneità storica di concetti quali ad esempio la “caduta tendenziale del saggio di profitto”, che dimostrava una matematica implosione del capitalismo e che è stata criticata dai marxisti stessi, si veda ad esempio quanto scritto da Sweezy).
Nei manuali si giunge addirittura all’assurdo, elevando Carlo Marx ad alfiere e precursore di ambientalismo, terzomondismo e parità di genere, in una “eticizzazione” ed attualizzazione estrema del filosofo che distorce le sue stesse convinzioni e la sua biografia, sulla cui contraddizione con l’ideologia comunista si glissa. Un “santino”, insomma. Così, mentre sovente si leggono tutti i pettegolezzi riguardanti Arturo Schopenhauer, il quale predicava l’ascesi e l’etica della compassione ma nondimeno scaraventò la vicina di pianerottolo giù dalle scale, nessun testo riporta il disgusto del filosofo di Treviri per la vita contadina, il figlio avuto dalla cameriera e spedito dalla suocera in campagna (c’è qualcosa di più “borghese”?) e l’esistenza agiata a Londra con vari domestici a servizio, ovviamente a spese dell’amico “capitalista” Engels.
I frutti del dettato marxiano sono spiegati nella terza parte, Ecologismo, terzomondismo e globalizzazione: l’apocalisse di mercato. Questa sezione del libro si apre alle conseguenze occulte della rivisitazione in chiave liberal del pensiero di Marx.
Tra di esse, si annovera il neo-malthusianesimo delle risorse: esse sono intese solo come mere fonti minerarie ed energetiche in esaurimento (in un testo di fine anni ’90 si cita, con profezie precise quanto erronee, la fine delle riserve di rame nel 2015), senza ammettere che vi possano essere cambiamenti tecnologici atti a ridurre la dipendenza da esse. Del resto, nessun testo ricorda che le previsioni e i calcoli di Malthus non si avverarono proprio perché un dividendo demografico crescente fu sfamato da beni e servizi prodotti dalla Rivoluzione industriale, che scongiurò carestie, guerre e cavalieri dell’Apocalisse…
Ancora, il “climatismo” è presentato come un dogma: a fronte dell’aumento inarrestabile delle temperature, l’unico intervento possibile è pianificatorio e deve venire dall’azione dei governi mediante la green transition. Non si contemplano azioni “a valle”, di mitigazione o prevenzione delle catastrofi naturali (ad esempio, con la manutenzione, anche privata del territorio o con le discusse casse di espansione, argomento di forte attualità). Interessante a tal proposito è notare la curvatura progressiva dei manuali dal problema più generale dell’inquinamento a quello del surriscaldamento climatico. Quest’ultimo, infatti, a detta degli autori del saggio, gioca tutta la sua impalcatura su considerazioni di carattere scientifico che giustificano “emergenze, stati di eccezione” da risolvere con pianificazione e controllo generalizzati. L’”inquinamento”, invece, richiede soluzioni che si muovono sulla cornice, cara al liberalismo, della giustizia ed in particolare del diritto di proprietà: “inquinare” difatti non è mai un fatto innocuo, è un dolo che lede la proprietà altrui o comune. La sua illiceità affonda le origini tanto nel civil law (si pensi all’immissio nel diritto romano) quanto nel common law (si pensi alle law of nuisance dall’antico diritto inglese).
Un altro aspetto dei testi scolastici è l’antioccidentalismo dilagante, specie quando si discorre dell’imperialismo europeo a danno delle civiltà precolombiane, circostanza che non si riscontra quando si parla dell’espansionismo arabo o degli imperi africani. Vi è, quindi, una sorta di pregiudizio razzista strisciante che vede nell’Altro un bon sauvage, un proletario del Terzo Mondo, incapace di compiere azioni sbagliate e oggi vittima della “Coca-colonizzazione” statunitense. Il trattamento riservato all’Asia è singolare: il celere passaggio del Giappone da stato quasi feudale a potenza economica è trascurato, così come non si valorizza affatto l’evoluzione delle “tigri dell’Asia” (Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan), ree di aver avverato le tesi di Peter Bauer che oppone l’efficacia dello scambio (economico) all’aiuto (politico e controproducente, capace solo di alimentare agenzie pubbliche inefficaci).
In aggiunta, manca nei testi un pluralismo dei punti di vista: la cancellazione del debito del Sud del mondo viene esposta come un’ovvietà, tralasciando soluzioni bottom-up di autopromozione (ben descritte da Easterly, ad esempio). Nessuno, d’altro canto, menziona che esportare il modello dello Stato sovrano sia stato un vulnus per quelle società abituate a pluralismi tribali ed autogoverno. Una diffusione che ha dato il desto, ad esempio, all’emergere dei socialismi “equatoriali” (sul ruolo dello Stato, grande Leviatano, si consiglia la lettura di Credere nello Stato, di Carlo Lottieri, che Creature ha già recensito in passato,ndr).
La sfera del diritto, quindi, è positiva se implica più stato e quella economica lo diventa se si rivolge alla pianificazione: un mainstream che per gli autori è tutt’altro che liberale.
Al converso il globalismo politico-giuridico (affermazione dell’Europa-Stato, ad esempio) è presentato come antidoto alla globalizzazione economica e, con onestà, i tre autori riconoscono l’inverarsi di alcune superstizioni: “nel momento in cui i poteri pubblici si fanno pervasivi…è facile constatare come l’ordine sociale tenda ad essere il prodotto dell’azione cospiratoria (nel senso “elitista” del termine, formulato da Gaetano Mosca, ndr) condotta da circoli politici, imprese e gruppi di interesse. Quanto più la società si allontana dal mercato…tanto più è sensato ritenere che dietro ogni evento ci sia una qualche decisione…un colpevole”, secondo la dinamica marxista oppressi vs oppressori, appunto.
In conclusione, forse che i manuali scolastici siano l’origine primaria di una mentalità anticapitalista?
No, rispondono gli autori: sono semplicemente il sintomo e lo specchio della storia italiana dall’Unità in poi. Una storia nazionale nata dall’accentramento postunitario (scalfito solo nel 1970 con l’istituzione delle Regioni) di una classe dirigente sì liberale ma ossessionata dalla concorrenza con la Chiesa (nella formazione e nella sanità). Un primo periodo “laicizzante” che negli anni ha tradito definitivamente il liberalismo, sfociando nel protezionismo crispino e nel culto fascista dello Stato, sino ad arrivare alla crescente imposizione fiscale sottesa all’assistenzialismo repubblicano, ma “lo statalismo non è una religione a costo zero… ammonta a circa due terzi di quello che produciamo”, ricordano i tre autori del saggio.
L’insegnamento stesso della filosofia al liceo è stato concepito da filosofi neo-idealisti (Croce e Gentile) di orientamento storicista (non dissimilmente da Marx, benché da un versante di “destra”) e si configura appunto come una galoppata tra le epoche più che tra i temi (la disciplina filosofica è ridotta innegabilmente a “storia della filosofia”, sacrificando il dialogo e la riflessione critica).
Siamo avviati, allora, ineluttabilmente a una “scuola di declino”?
No, a patto che “ovunque – nelle università e nelle imprese, nelle chiese e nei media- si inizi a capire che nessuna società che abbia a lungo rigettato e contestato le ragioni storiche della propria libertà e della propria prosperità è riuscita a preservare nel tempo benessere e libertà”.
L’invito di Atzeni, Bassani e Lottieri allora è rivolto a ciascuno di noi: mettiamo da parte il vittimismo e la “decrescita felice”. Se lo faremo, forse si scriveranno testi nuovi per le scuole, che saranno davvero “scuole di prosperità”.