Sette e trenta: suona la sveglia
Allungo svogliatamente il braccio verso il comodino. Questa suoneria mi è caduta in disgrazia, devo ricordarmi di cambiarla. I miei occhi si abituano poco a poco alla luce del sole che si infiltra indisturbato, proiettando immagini di luce sul muro. Come ho potuto dimenticarmi di chiudere gli scuri ieri sera?
Disteso, con lo sguardo fisso al soffitto, visualizzo in anticipo la giornata che mi aspetta. Il mio cervello ha deciso di viaggiare sin dai primi minuti della giornata, si è imposto su di me e non riesco a rallentarlo. Sul soffitto bianco della mia stanza silenziosa, appaiono a colori vividi e a tutto volume le vicissitudini che caratterizzano la mia quotidianità: gli incontri mattutini, gli impegni ad incastro, le riunioni con le persone di cui occorre avere un’alta considerazione, i lavori urgenti, la mia cattiva gestione dei lavori urgenti, le conseguenze della mia cattiva gestione dei lavori urgenti. Poi la pausa pranzo, e, di nuovo, da capo, incontri, riunioni, scadenze. E infine il tragitto verso casa, la cena, la doccia e il letto. Il letto: solo questo segmento di pensiero è in grado di riportarmi al presente. Riprendo coscienza di dove sono, attivo i muscoli delle gambe e realizzo di essere ancora disteso. Lo scorrere dei pensieri si inceppa come una radio difettosa non appena una voce nel mio cervello ripete con innocenza: “soltanto altri cinque minuti…”. Non riesco a ignorarla e senza che me n’accorga si fanno le sette e cinquantacinque. Realizzo che cinque minuti sono diventati venticinque e che ora me ne rimangono solo quindici per mettere su un caffè, lavarmi, vestirmi e bere il caffè sull’uscio della porta senza macchiare la camicia.
Finalmente mi alzo: il pavimento è freddo e di riflesso un brivido mi attraversa schiena. Eseguo, meccanicamente, le attività che mi sono prefigurato, e, in più, mi concedo il lusso di esitare qualche secondo davanti alla dispensa aperta: sono affamato? Ma sì, due biscotti li prendo, li mangio nel tragitto verso la metro. Chiudo la porta di casa dietro di me. Incontro Vittorio che sta passando il moccio nell’atrio che, intelligentemente, capisce che stamattina sono di fretta e si limita ad augurarmi una buona giornata. Arrivato alla fermata, scendo le scale di corsa per raggiungere il binario, facendo lo slalom tra la gente che con lo zaino, le cuffiette e un volto stanco si appresta ad iniziare la propria giornata lavorativa. Entro in metro, sono in piedi, a tal punto schiacciato che quasi mi manca l’aria. Guardo in basso per non essere costretto ad incrociare sguardi altrui, un po’ come in ascensore. Ho caldo, quanto manca alla mia fermata? Finalmente ci siamo: scivolo fuori tra le porte facendomi spazio tra la gente, salgo le scale mobili assieme a coloro che vanno di fretta, camminando a passo sostenuto sulla parte sinistra del gradino per accelerare il ritmo della salita. Passo i tornelli e… aria.
Cammino verso l’ufficio e, per strada, mi accendo una sigaretta per allentare la tensione di fronte ad una giornata che si prospetta frenetica. Una vibrazione del cellulare mi ricorda che da lì a venti minuti ho una riunione. Mi avvio verso la mia stanza, appoggio lo zaino ai piedi della mia scrivania e tiro fuori il portatile. Trentacinque mail da leggere alle otto e quarantacinque: che la giornata abbia inizio.
Una e mezza di notte: pensieri assordanti.
Sono steso a letto supino con le braccia lungo i fianchi. Il mio corpo rilascia tutta la pesantezza accumulata nel corso della giornata, creando nel materasso una cavità che ricalca la mia sagoma. Mi rendo conto di provare finalmente un senso di pace, forse perché è il primo momento della giornata in cui non mi squilla il telefono. Eppure, non riesco a chiudere gli occhi: un po’ perché infastidito da quell’unico punto luminoso che è il mio caricatore del portatile che rovina il buio più totale, ed un po’ perché sono di nuovo bombardato dai pensieri più svariati. Non riesco a concluderne uno, che già un altro ha preso il sopravvento nel mio cervello che non accenna a spegnersi. D’altronde, l’ho sforzato fino a poco fa a tal punto da farmi venire il mal di testa.
E così ricomincio a viaggiare con la mente. Realizzo che la mia giornata è stata talmente insignificante che non vale nemmeno la pena di essere raccontata. Non avrei alcuno spunto da condividere per suscitare la curiosità altrui. Sì, la mia giornata può definirsi piena: ho inviato una ventina di mail, partecipato a tre riunioni con i clienti, preparato il mio discorso per il convegno di martedì prossimo. Il mio capo si è pure complimentato per l’ottimo lavoro che sto facendo sul progetto che porto avanti da ormai due mesi. Sto decisamente vivendo il momento più stimolante della carriera in cui investo da anni. Eppure, perché la sera torno a casa stanco, insoddisfatto, con la sensazione che manchi sempre qualcosa nella mia vita?
Rifletto e ancora rifletto.
Realizzo che, nel corso delle giornate lavorative che scorrono senza che me n’accorga, io nel mondo non esisto. Sono prigioniero dell’universo delle scadenze da ossequiare come fossero una divinità. Quando torno a casa, a mente lucida, sono schiacciato dal pensiero che questo mondo non faccia al caso mio. Forse perché sto vivendo per abitudine, o meglio, perché sto vivendo in funzione delle mie abitudini. Mi soffermo su quanto ho elaborato, sforzandomi di riempire di significato ciò che la mia coscienza mi ha appena suggerito, come un’amica.
Concludo che quando si vive per abitudine, ci si fa trascinare dalla quotidianità scaglionata in tempi predefiniti. Si è in preda ad un abbaglio che acceca, che distrae, che, talvolta, rende disinteressati a ciò che ci circonda e allontana dai valori che si sono coltivati fino a quel momento. Nel contesto lavorativo, accade che ci si aggrappa all’idea che, alla fin fine, tutto vada bene così com’è: che i colleghi non siano così competitivi, il capo non sia così esigente, gli orari non siano così esagerati e il caffè della macchinetta non sia così imbevibile. Un po’ come quando la sera si decide di guardare un bel film che già si conosce a memoria, perché non si vuole rischiare di rimanere delusi da una trama nuova. Ebbene, questo è di certo il miglior modo per precludersi di scoprire una storia avvincente, che sia di un nuovo film o di una nuova fase della vita.
Quando, invece, si vive in funzione delle abitudini, si è dominati dagli eventi che caratterizzano la propria quotidianità. Non si agisce ascoltando se stessi, ma si agisce per assecondare il susseguirsi degli eventi e si finisce per attribuire ad essi il senso della propria esistenza. Nelle azioni di coloro che vivono in funzione delle abitudini nel contesto lavorativo, purtroppo, c’è consapevolezza: a differenza di quelli che vivono per abitudine, loro proiettano e ricercano all’esterno la sensazione di appagamento che dovrebbe, invece, anzitutto, derivare dall’interno, cioè dal proprio animo, dalla propria sensibilità, dai propri valori, dalle proprie genuine buone azioni. Nella mia vita, da otto anni a questa parte, trascorrere una media di quindici ore al giorno in ufficio è diventata un’azione abitudinaria, un tratto caratteristico che famiglia e amici mi associano, nonché un qualcosa in cui io mi identifico.
Vengo travolto da un profondo senso di tristezza e delusione: questa cruda verità a cui mi ha condotto la mia mente è pesante, difficile da digerire. È triste che una scadenza a lavoro prevalga su ogni cosa, tra cui una chiamata o un messaggio ai miei genitori, il compleanno della mia ragazza, la recita di fine anno di mia nipote. I miei pensieri sono assordanti. Tutto d’un tratto mi abbandono ad un pianto disperato, uno sfogo liberatorio, fino a che, piano piano, inspiro ed espiro ad un ritmo sempre più regolare e la mia mente rallenta. Sono lucido. Sento che ho scoperto le carte, che mi sono messo a nudo di fronte a me stesso. Non posso fare altro che trasformare i miei pensieri in azioni e rivedere le mie priorità. È l’inizio di un ritorno alle origini della mia persona, di un viaggio per riscoprire i miei valori più puri e fare di essi la mia unica abitudine, il mio tratto caratteristico e ciò in cui mi identifico.