Per una nuova etica del lavoro
“Ma soprattutto perché i lavoratori entravano nei cancelli della fabbrica già forniti di quel capitale relazionale che consentiva loro di cooperare con gli altri, un’arte che avevano appreso e riapprendevano ogni giorno in famiglia, nel villaggio, nelle mietiture, nelle vendemmie, nell’uccisione del maiale, nelle processioni, nei funerali, nei matrimoni, nelle confraternite, nelle congregazioni, nelle cooperative, nei partiti, nelle feste padronali”.
Scrive così Luigino Bruni nella sua pubblicazione “Critica della ragione manageriale (e della consulenza)” riferendosi a come, per secoli, le imprese non si sono dovute preoccupare della formazione del carattere dei lavoratori, né delle loro virtù civili, ma solo della formazione tecnica, perché avevano consapevolezza che il lavoro educava in sé stesso.
È un libro-critica che tocca con profondità e attualità il vissuto quotidiano di molti lavoratori, in particolar modo quelli più giovani, che non hanno probabilmente mai incontrato nei propri responsabili quelle virtù civili formatesi nel ‘900 il cui insegnamento sta ora affrontando una profonda crisi. La tesi del saggio è che le aziende stiano colmando il vuoto lasciato dal venir meno delle virtù civili, - la cui mancanza è dovuta all'odierna crisi della fede, delle grandi narrative partitiche e dell'unità familiare -, con la "ragione manageriale", cioè con la creazione ad hoc di risorse umane attraverso attività di coaching, counseling e team building.
Bruni tenta di far riflettere il lettore sul senso delle relazioni, sulla necessità di una consulenza mediata dalla sussidiarietà che offra alla persona l'opportunità di instaurare una relazione feconda con l'interlocutore accettando la propria vulnerabilità. Si scopre così che chi è fraterno in un gruppo di lavoro non abbina l’inefficienza alla fragilità, perché riconosce che il valore della persona è sempre oltre la qualità del suo proprio lavoro e del suo stipendio. È nel riconoscimento della dignità della persona che va inquadrato il fallimento, che diventa così occasione di riflessione e di miglioramento.
Ricordo in questo contesto l’analisi di Stefano Zamagni sull’enciclica Laborem Exercens (1981), dove distingue due espressioni del lavoro: il lavoro giusto e il lavoro decente. Il primo consente di acquisire una vita adeguata all’epoca storica, cioè di adeguare il proprio potere d'acquisto alle esigenze economiche del tempo. Il secondo consente di esprimere il proprio potenziale di vita e realizzare la propria identità storica. Oggi tutti, - e in particolar modo i sindacati -, si battono solo ed esclusivamente per il lavoro giusto quando invece è il lavoro decente che stimola la fraternità e il formarsi della comunità. È proprio questa dimensione che rende felici le persone di svegliarsi alla mattina più sorridenti verso i colleghi per contribuire alla creazione della propria storia e di quella degli altri. Ricorda a tal proposito Bruni come il lavoro sia un'attività educativa anche quando esso è duro e non abbastanza tutelato.
Nel prosieguo del libro Bruni affronta in particolar modo la questione riguardante la figura dei “leader”. Egli li ritiene un fenomeno problematico non circoscritto alla dimensione aziendale, ma proprio anche dell'associazionismo e delle comunità ecclesiali. Si sofferma poi a riflettere sulla pericolosità della meritocrazia sottolineando che la carriera non è e non deve essere solamente il risultato di un merito ma anche di un impegno.
Lasciando ai lettori l’approfondimento dei singoli temi del libro, concludo con un piccolo paragrafo che mi sembra esprimere con particolare efficacia il valore della dignità del lavoro e dell'economia di mercato.
“Nel monachesimo lavoravano anche i monaci, spesso colti e dottori in teologia e in altre scienze. Questo, da solo, basterebbe per capire che cosa la riunificazione delle mani con la testa significò per l’etica del lavoro in Europa. Quando un contadino o un artigiano analfabeta entrava per comprare oppure vendere in un monastero e vedeva i monaci lavorare, fare cioè le stesse cose che faceva lui, capiva immediatamente che il suo lavoro era importante, non era faccenda per servi e schiavi. Non aveva bisogno dell’omelia o del trattato per capirlo, gli bastava l’organo della vista. La fede nell’Incarnazione aveva insegnato ai monaci che toccare la materia non è qualcosa di impuro, che quindi in quanto tale si addice solo allo schiavo. La terra, la polvere, il cibo, sono segno e sacramento della stessa vita. Sporcano le mani come la “scrittura sporca le mani”, secondo la celebre e felice espressione degli antichi rabbini. Solo chi ha usato le mani per produrre pane e vino sa cos’è veramente l’eucaristia, perché intuisce che quei beni che sull’altare cambiano per l’azione efficace della parola del sacerdote sono, da un altro punto di vista vero, sempre le stesse cose buone nate dalla vita e dal lavoro dell’uomo. Senza una nuova etica del lavoro, delle mani e della materia non avremmo avuto l’economica di mercato, e non avremmo avuto questa nuova etica senza i monaci”.