Presidenziali statunitensi. Dalle primarie al voto, attraverso un rito unico al mondo

Nel novembre dello scorso anno l’Economist, influente settimanale inglese a carattere politico-economico, ha definito il 2024 “the biggest election year in history” (“l’anno elettorale più importante nella Storia”). Più di 4 miliardi di persone, infatti, saranno chiamate a esprimere un voto: dal Brasile all’India, dal Messico alla Russia fino ad arrivare agli Stati Uniti d’America. Inutile sottolineare che saranno proprio queste ultime a dominare l’attenzione dei media e dei singoli cittadini, non solo per il ruolo che gli USA ricoprono nel mondo, ma anche perché sembra sempre più probabile una sfida “vulcanica” tra il Presidente uscente Joe Biden e il suo predecessore Donald Trump, già scontratisi nel 2020. Si voterà martedì 5 novembre, precisamente il martedì dopo il primo lunedì dell’undicesimo mese dell’anno, come stabilì il Congresso nel 1845. Una domanda iniziale: perché negli Stati Uniti si vota in una giornata settimanale di un mese invernale? La scelta non fu a caso: il lunedì era fuori discussione perché avrebbe costretto molti a partire da casa il giorno prima per raggiungere i seggi, la domenica era il giorno dedicato al culto e al riposo e il mercoledì era giorno di mercato e gli agricoltori non avrebbero avuto tempo per recarsi a votare; perciò si decise che il martedì sarebbe stato il giorno in cui gli Americani avrebbero votato. Per quanto riguarda il mese, invece, la scelta ricadde su novembre in quanto era il periodo successivo al raccolto autunnale, durante il quale la neve e il ghiaccio non avrebbero ostacolato la circolazione delle persone.

Una delle tante domande che circolano in questo periodo è però anche la seguente: chi sceglie i candidati alla presidenza tra i quali gli elettori dovranno scegliere? Come è immaginabile il meccanismo non è sempre stato identico a quello attuale. Sono dovuti passare, infatti, cent’anni perché si cominciasse a delineare la procedura oggi in vigore basata sulle primarie e sui caucus (termine appartenente al popolo nativo degli Algonchini che indica l’uomo saggio che dispensa insegnamenti) e che si conclude con la nomination, ossia l’investitura del candidato Presidente annunciata nella convention, il congresso quadriennale del partito.

È infatti solo nel 1831 che l’allora Partito Antimassonico decise di nominare il proprio candidato in vista delle elezioni del 1832 con un congresso al quale erano invitati a votare i delegati dei diversi Stati. Tale novità venne giudicata interessante dagli altri partiti che iniziarono così ad imitarla. Ma fu solo al termine dell’Ottocento che si pose il problema della scelta dei delegati: come sarebbero stati selezionati? In molti giudicarono errato lasciare pieno potere alle segreterie politiche e suggerirono di coinvolgere proprio coloro che, al termine dei giochi, avrebbero deciso le sorti del Paese, ossia gli stessi cittadini. I partiti, quindi, organizzarono i primi caucus, ossia dei dibattiti all’interno di scuole, chiese e spazi ricreativi di ogni Stato durante i quali i vari simpatizzanti sceglievano i delegati che avrebbero partecipato alla convention nazionale del partito. Solo nel 1896, invece, la Carolina del Sud impose per legge l’utilizzo delle primarie (assemblee pubbliche nelle quali i delegati sono eletti dai cittadini), seguita dal Wisconsin nel 1903. Tale meccanismo faticò ad essere attuato per l’insofferenza dei due principali partiti (repubblicano e democratico), ma nel corso degli anni prese sempre più piede, anche se nel 1984 il Comitato nazionale del Partito Democratico apportò dei correttivi istituendo i “superdelegati”, dirigenti nominati dal partito che avrebbero potuto votare nella convention al pari degli eletti tramite le primarie. Grazie al loro voto sarebbe stato possibile bilanciare l’orientamento dei delegati ed evitare che la nomination ricadesse su un candidato estremista. Furono indispensabili, ad esempio, nel 2016, quando i superdelegati assegnarono la vittoria ad Hillary Clinton anziché a Bernie Sanders.

Le primarie sono diventate piano a piano il metodo più diffuso nella designazione del candidato: attualmente si tengono in circa 40 Stati su 50, mentre i restanti hanno deciso di non abbandonare l’uso dei caucus: Iowa, Idaho e Wyoming per entrambi i partiti e in Nevada, Missouri, North Dakota, Alaska, Utah e Hawaii per il solo Partito Repubblicano. Ma ricorreranno a questo antico uso anche tre possedimenti americani che non hanno la condizione giuridica di Stato: Guam, Samoa americane e Isole Vergini.

È importante sottolineare che non esiste un unico modello di elezione primaria. I partiti infatti ne definiscono le regole su base nazionale (non federale). La questione centrale riguarda l’identità politica dei votanti in quanto questi ultimi devono registrarsi nelle liste elettorali scegliendo se figurare come sostenitori del partito o indipendenti. La maggior parte degli Stati adotta le cosiddette “primarie chiuse”, che consentono agli elettori di votare soltanto nelle assemblee del partito per il quale si sono registrati e impediscono così ai repubblicani di influenzare la scelta del candidato democratico (e viceversa). Nelle “primarie aperte”, invece, gli elettori si recano a votare a prescindere da come si sono identificati al momento della registrazione. Ma c’è anche un terzo tipo che non va dimenticato: le “primarie semi-chiuseosemi-aperte”, che vincolano gli elettori con una determinata affiliazione politica a votare nelle assemblee del partito per il quale si sono identificati, pur consentendo agli indipendenti di partecipare a qualsivoglia elezione.

I singoli Stati, oltre a stabilire le regole di accesso alle primarie, regolamentano anche l’età minima per votare; in quasi tutti è necessario aver compiuto il diciottesimo anno di età, ma, per esempio, per il Distretto di Columbia è consentito il voto ai diciassettenni che compiranno diciotto anni prima del giorno in cui si terranno le presidenziali.

Va precisato che, più che per votare per un candidato alla nomination, gli elettori stabiliscono il numero di delegati di cui quest’ultimo disporrà alla convenzione nazionale del partito. I democratici aggiudicano i delegati con il sistema proporzionale, mentre i repubblicani preferiscono il maggioritario, anche se nelle primarie del 12 marzo i delegati conservatori saranno assegnati proporzionalmente (tranne in California dove se la lista del candidato riceverà il 50% + 1 dei voti conquisterà tutti i delegati, al contrario questi ultimi verranno ripartiti con il sistema proporzionale). Complessivamente i democratici eleggeranno 4.542 delegati, mentre i repubblicani 2.470. Ma agli eletti andranno sommati, per i primi, 744 superdelegati, per i secondi 150.

I delegati sono tenuti a sostenere il candidato a cui erano associati ai caucus o alle primarie, anche se può accadere che, nel frattempo, qualcheduno si sia ritirato dalla corsa o, non avendo speranze di vittoria, voglia convogliare i propri voti su uno dei candidati potenzialmente vincenti, liberando così i propri eletti dal vincolo di mandato. Qualora nessun candidato ottenga la maggioranza dei delegati alla prima votazione, i delegati possono esprimersi per chi desiderano.

Per i superdelegati le regole sono diverse: quelli repubblicani hanno l’obbligo di seguire l’orientamento della maggioranza dei delegati dello Stato che rappresentano, quelli democratici non hanno vincoli, ma potranno votare solo se alla prima votazione non si sia già formata una maggioranza tale da assegnare la nomination.

Come stiamo ascoltando e leggendo in questi mesi dai mezzi di informazione, le primarie e i caucus non si svolgono in un unico giorno in tutta l’America, ma sono distribuiti in un arco temporale che si estende da gennaio a giugno. Ha fatto molto clamore il caucus repubblicano dell’Iowa, celebratosi il 15 gennaio, durante il quale si sono sfidati il sempre più sferzante Donald Trump, l’erede del Partito Repubblicano pre-trumpiano Nikki Haley e il Governatore della Florida Ron DeSantis, oltre ad altre figure minori come l’ultraliberista Vivek Ramaswamy. I risultati erano attesi con trepidazione e hanno visto confermare le previsioni: Trump ha conquistato il 51% dei voti, lasciando al secondo posto DeSantis (21,3%) e al terzo Haley (19,1%). Un 7,6% è stato invece conquistato da Ramaswamy, che però ha preferito ritirarsi a poche ore dai risultati del voto convergendo i propri consensi su Trump. Quest’ultimo, seppur insidiato da due avversari non da poco, è riuscito nuovamente ad attrarre su di sé la base del Partito Repubblicano, scettica verso la visione liberal-conservatore di Haley e annoiata dallo scarso carisma di DeSantis. Lo si è visto anche in New Hampshire dove Trump, grazie all’endorsement del Governatore della Florida, ritiratosi il 21 gennaio, ha prevalso su Haley con il 54,4% dei voti, un risultato non da poco che però non è riuscito a convincere quest’ultima a ritirarsi. La paladina dei repubblicani moderati non solo ha raccolto il sostegno dei grandi finanziatori repubblicani, ma con lei si è schierata anche l’alta burocrazia del Pentagono, che le ha permesso di vincere le primarie di Washington D.C. con il 62,8%. Tuttavia, anche l’unico Stato in cui Halley aveva più probabilità di vittoria, la Carolina del Sud, della quale è stata governatrice dal 2011 al 2017, non le ha riservato sorprese, regalandole un 39,5% dei voti, più delle aspettative sondaggistiche, ma molto meno dell’ex Presidente. La repubblicana anti-Trump ha deciso di resistere fino al “super Tuesday”, quando Trump ha conquistato il voto di Alabama, Alaska, Arkansas, Colorado, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, California, Maine, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Virginia e Samoa, soccombendo solo nel Vermont con uno scarto del 4,3%. Haley ha così deciso di abbandonare la corsa, ma senza dare il suo appoggio allo sfidante, rivolgendogli solo un appello a tener conto dell’ala minoritaria del Partito Repubblicano. Quanto costerà questo mancato endorsment saranno i prossimi mesi a rivelarcelo; sicuramente influirà sul voto degli elettori indipendenti o moderati che, pur non apprezzando Biden, faticheranno a scegliere il tycoon. A distanza di mesi si può però concludere che il grosso problema di Haley è stata l’incapacità di parlare alla working class, ormai zoccolo duro del partito, e il netto sostegno all’Ucraina, sempre più sgradito agli Americani.

All’interno del Partito Democratico è stato invece il mancato supporto di Biden alla Palestina a far discutere, facendosi sentire anche elettoralmente. Nel Michigan la comunità arabo-americana e gli attivisti filo-palestinesi hanno invitato a votare “uncomitted” (“non schierati”), raccogliendo un buon 13,2%. E anche nel Minnesota e in Carolina del Nord il 10% circa delle schede è stato contraddistinto da tale protesta. Sarà quindi da capire se i democratici di origine araba si “tureranno il naso” votando Biden o decideranno di disertare le urne, regalando chances a Trump.

Ciò che sappiamo di certo è che, dopo mesi di attesa, è giunto il pronunciamento della Corte Suprema attinente all’incandidabilità di Trump dopo che l’omologa istituzione del Colorado lo aveva escluso dal voto statale per il ruolo avuto nell’assalto al Congresso. I giudici federali, all’unanimità, hanno affermato che il 14° emendamento della Costituzione (divieto di incarichi governativi a chi è stato coinvolto in un’insurrezione o una ribellione contro gli Stati Uniti o ha dato aiuto o sostegno a coloro che l‘hanno intrapresa) sarà applicato all’ex Presidente. Ma gli stessi torneranno a riunirsi a breve poiché dovranno chiarire se Trump dovrà affrontare il processo penale presso un tribunale federale nel Distretto di Columbia a causa del tentativo di ribaltare il risultato elettorale del 2020 o se, al contrario, sarà protetto dall'immunità presidenziale poiché i fatti sono accaduti prima che lasciasse l'incarico. 

La strada del magnate newyorkese per la nomination non risulta quindi tranquilla, ma non lo è nemmeno quella di Biden, affaticato non solo dall’età avanzata, ma anche dagli attacchi della base democratica, delusa dalle tiepide riforme del suo mandato e amareggiata dal sostegno degli USA a Israele. Nel frattempo un sondaggio ha rivelato che il 59% degli Americani ritiene entrambi troppo anziani per governare.

I giochi sono appena iniziati. Per alcuni sono un film già visto, per altri il meglio (o il peggio) deve ancora arrivare!

Michele Gottardi

Classe 1995, maturità classica e laurea con lode in giurisprudenza all’Università di Trieste. Appassionato di storia, politica e religioni, amante del "bello" nelle sue forme più elevate e profonde.

Indietro
Indietro

Intelligenza artificiale: un dominio in espansione, ma non infinito (per ora)

Avanti
Avanti

Il MES: una storia (in)finita