Intervista a Maurizio Sacconi, “otre nuovo per vino nuovo”: il riformismo delle istituzioni come risposta ai cambiamenti demografici, tecnologici e socio-economici.

In politica esistono i “reduci” e i “veterani”. Esistono coloro che hanno magari un grandioso passato alle spalle, ma sono stati sconfitti dalla Storia e oggi vivono ritirati a vita privata. Esistono anche coloro i quali hanno militato per anni in prima fila ed ora si possono concedere il lusso di incidere nel discorso pubblico e parlamentare senza ricercare continuamente i riflettori, in ragione dell’ ”auctoritas” tributata da amici e avversari di ieri e di oggi. Ecco, Maurizio Sacconi appartiene a questa seconda categoria.

Lo incontro a margine di un evento organizzato nei pressi di Padova dall’onorevole Domenico Menorello (Ditelo Sui Tetti) e Massimiliano Zaniolo (Creature Italia) , nel maggio scorso. Il format prevede una discussione sul futuro dell’Europa e l’occasione per alcuni candidati del territorio per presentarsi e far conoscere la loro esperienza.

Sacconi ascolta tutti, ha la pazienza del “veterano” e non disdegna il momento conviviale che segue.

L’esperienza romana gli ha probabilmente mostrato come siano le discussioni che nascono “a latere” ad essere le più interessanti. Le origini venete, dall’altro lato, lo portano, mentre parliamo informalmente, a concentrarsi sui temi più cari alla sua terra, il lavoro e il “welfare”, fulcro di un “cursus honorum” degno di una progressione che potrebbe ricalcare quella di un moderno Cicerone: consigliere comunale a Treviso, deputato, sottosegretario al Tesoro, senatore e ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. Una carriera condotta sempre “a fianco di” persone ed ideali e mai “all’ombra di” politici ed ideologie.

Natali coneglianesi e adozioni capitoline ci accomunano, per cui è facile entrare in sintonia su molti temi: “in nuce” si sviluppano gli argomenti oggetto di questa intervista, che pubblichiamo qui per voi lettori di “Creature”.

 L’intervista:

  • Uno dei temi all’ordine del giorno nel dibattito pubblico è la questione demografica correlata al mondo del lavoro. Molti demografi, tra i quali il professor Orsina, lamentano che l’Italia non sta affrontando il problema né in termini “difensivi” (politiche pensionistiche) né in termini “d’attacco” (aumento della platea di lavoratori, mediante la maggiore inclusione di donne e giovani, o facendo leva sull’immigrazione, l’automazione o l’efficienza dei processi). A suo avviso, da ex ministro del Lavoro, c’è spazio in Italia per un dibattito sulle pensioni che vada oltre la riforma Fornero. Se sì, in che modo bisognerebbe intervenire? Quanto invece ad un possibile atteggiamento proattivo del sistema Paese, quale leva potrebbe produrre il maggior vantaggio tra quelle citate? E come si potrebbe intervenire?

Maurizio Sacconi: Il declino demografico e gli squilibri che ne conseguono impongono politiche di sostegno della natalità e di forte impulso alla crescita della ricchezza e della occupazione. Il che significa una scelta di forte deregolazione per incoraggiare chiunque abbia voglia di intraprendere. L’Italia deve uscire dalla sindrome dell’anticorruzione e liberare la capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche come la vitalità imprenditoriale e la propensione ad assumere. Nonostante il continuo incremento del nostro tasso di occupazione dopo la pandemia, abbiamo ancora un terzo di inattivi. Quindi, c’é spazio per un incremento, soprattutto tra giovani, donne e nel mezzogiorno.

Una società attiva presuppone un sistema educativo efficace che porti ogni giovane, in ragione dei suoi talenti, a conoscenze di tipo superiore. Dobbiamo però spezzare ogni forma di autoreferenzialità corporativa nel corpo docente e diffondere l’integrazione tra apprendimento teorico e pratico, la collaborazione tra scuole, università e imprese.

La maternità deve essere considerata un valore. Nella società e nelle imprese. Non bastano sussidi o servizi di cura pubblici e privati per sostenerla. Occorre anche la garanzia per le donne della continuità del lavoro e della stessa carriera. La famiglia numerosa merita una fiscalità di forte favore.

Il modello di welfare può diventare più sostenibile se razionalizziamo il pilastro pubblico e sviluppiamo il secondo pilastro collettivo attraverso i fondi contrattuali dei lavoratori dipendenti e le forme mutualistiche di quelli indipendenti.

Il sistema previdenziale dovrebbe avere regole omogenee per dipendenti pubblici e privati. La riforma Fornero fu rigida perché priva di una transizione e ideologica per cui non resse alle pressioni sociali negli anni immediatamente successivi. Basti pensare agli otto provvedimenti di salvaguardia per esodati veri e presunti. Sono possibili, oltre un’ età minima,  forme di flessibilità di uscita fondate sul calcolo “contributivo”.

Il servizio sanitario nazionale vede profonde differenze nei costi e nelle prestazioni tra le Regioni. Il modello di riferimento, anche se suscettibile di miglioramenti, è solo quello Veneto per cui i trasferimenti dallo Stato dovrebbero essere condizionati a piani di convergenza verso le migliori pratiche.

  • Da politico che è stato socialista e che ha rivestito diversi incarichi di governo, concorda con l’analisi di Arnaldo Bagnasco, secondo il quale per revitalizzare il ceto medio non bastano pacchetti di policy (in Italia come in USA) ma occorre che l’azione politica incontri gli interessi sia del vecchio ceto medio in disgregazione sia del nuovo che avanza, come ad esempio le piccole e medie imprese del tech, che fioriscono anche nel Meridione del Paese? Più in generale, lo scivolamento del ceto medio tradizionale in un “proletariato dei servizi” (ben esemplificato dal professore di liceo che fatica a sopravvivere a Milano) le sembra un fattore di rischio grave per la liberaldemocrazia intesa come sistema?

Maurizio Sacconi: Sono cresciuto politicamente nella esperienza liberalsocialista di Craxi e De Michelis per cui conservo un approccio di favore per il mercato regolato e per la società attiva. La crescita implica innovazione, impiego delle tecnologie intelligenti, sostegno alle start up. Cose possibili, come ho già detto, in un quadro di forte deregolazione burocratica e fiscale. Un clima analogo, ovviamente aggiornato, a quello degli anni ‘60 e ‘80.

La ricostruzione di un largo e solido ceto medio non è impossibile. Non ci dobbiamo arrendere alla tendenza di polarizzazione dei redditi, che viene paradossalmente alimentata proprio dagli strumenti definiti nella seconda rivoluzione industriale. Il che significa superare la contrattazione salariale centralizzata per distribuire la ricchezza dopo che si è prodotta, dovunque si è prodotta. Ovvero nelle aziende e nei territori. Basta egualitarismi e omologazioni.

Il professore a Milano è impoverito dalla pretesa sindacale delle stabilizzazioni che ha prodotto il più elevato numero di docenti in rapporto agli alunni (con conseguenti bassi salari) e dall’egualitarismo che si oppone alle indennità di sede.

  • Su un versante invece di politica monetaria, molti criticano la Banca Centrale Europea per un atteggiamento timido sul taglio dei tassi… Altri, come Lorenzo Bini Smaghi, ne elogiano la prudenza, asserendo che sono finiti i tempi della “forward guidance ”: gli investitori devono assumersi i loro rischi senza ombrelli dalle banche centrali, che dovrebbero intervenire solo quando le previsioni degli operatori economici si rivelino fortemente distorte…Da ex sottosegretario al Tesoro, come si colloca nel merito della questione? E quest’atteggiamento “data driven”, cui ci sta abituando Lagarde, è effettivamente quello più corretto o sarebbe meglio tornare ad imprimere una linea definita agli operatori, come è stato nel decennio precedente, ai tempi del “Quantitative Easing”?

Maurizio Sacconi: Mi preoccupa l’eccesso di massa monetaria in proporzione all’economia reale. Per questo non sottovaluto le attenzioni alla stabilità finanziaria e all’inflazione. Mi auguro un maggiore coordinamento fra Fed e Bce.

  • A livello imprenditoriale si registrano reazioni contrastanti rispetto al tema dell’autonomia differenziata: c’è chi come Gianfelice Rocca (presidente di Techint) intravede nell’autonomia un’occasione di “concorrenza”, anche in campi come la scuola e la sanità, da sempre refrattarie a concetti come valutazione e benchmark. Al contrario, il Cav. Lav. Antonio D’Amato (presidente di Seda) e molti altri imprenditori (non solo del Mezzogiorno) sostengono che la riforma porterà a una moltiplicazione dei costi e della burocrazia per le aziende, che nel loro business dovranno far fronte a norme diverse già solo operando in regioni confinanti. Tenendo da parte ideologia e “giustezza” (morale, filosofica, politica) del ddl Calderoli, secondo lei, esso implicherà un aggravio economico per le imprese, i lavoratori e la stessa amministrazione pubblica?

Maurizio Sacconi: La mia preoccupazione è di segno opposto a quella di coloro che temono l’accentuazione dei divari territoriali. Il ministro Calderoli, nella ricerca del consenso, si è impegnato a definire i cosiddetti LEP e a finanziarli secondo la spesa storica. Il che farebbe ulteriormente esplodere la spesa pubblica lasciando inalterati i divari di efficienza nelle Regioni. Il vero nodo irrisolto è il regionalismo responsabile, ovvero la induzione delle amministrazioni a convergere, pur con le necessarie transizioni, verso i migliori costi standard. Questi non vanno confusi con il “costo delle siringhe” che riguarda i “prezzi di riferimento”. I costi standard riguardano il costo, ad esempio, dei macrolivelli di assistenza nei servizi sanitari regionali. Paradossalmente abbiamo trascurato la riforma del federalismo fiscale e da quella dobbiamo ripartire per liberare i cittadini dai loro cattivi amministratori e garantire in tutto il territorio della Repubblica omogeneità nella effettività di diritti fondamentali, come quelli alla salute e alla mobilità.

  • La tecnologia da sempre riscrive il mercato del lavoro e la concezione stessa di concepire il lavoro (da dinamico a statico, per esempio). Fino ad oggi, tuttavia, dal telaio meccanico della prima Rivoluzione Industriale sino ad arrivare alla moderna Industria 4.0 e ai suoi robot, tutta la meccanizzazione è intervenuta sui lavori ripetitivi e manuali delle fabbriche. L’intelligenza artificiale sembra invece andare a toccare più il mondo degli impiegati e delle professioni ad alto livello di istruzione. Gianluigi Castelli (SDA Bocconi School of Management) sostiene che il fenomeno dell’AI potrebbe risolversi in una bolla, come è stato recentemente con il decantato “metaverso”, il quale, all’atto pratico, non ha registrato grandi effetti dopo un certo entusiasmo iniziale. Secondo l’accademico, l’AI starebbe andando incontro a una fase di “hype”, cui seguirà una “gola delle disillusioni”, finché il fenomeno si assesterà su un “plateau” intermedio di interesse e di applicazioni. Secondo lei, l’intelligenza artificiale è davvero così dirompente come si sente dire in questi mesi oppure, come tutti i prodotti (anche quelli dell’intelletto, questo sì, umano), è destinata a un ciclo di vita dalle dinamiche più o meno conosciute dagli economisti?

Maurizio Sacconi: E’ ben difficile prevedere la dinamica di tecnologie che hanno rivelato una progressione più che geometrica. Sarebbe oggi sufficiente stabilire che è finito il taylorismo con i suoi lavori ripetitivi nelle produzioni seriali. Ed invece vi sono forze politiche e sociali che si ostinano a voler conservare le istituzioni del lavoro definite proprio nel corso di quella seconda rivoluzione industriale, con il risultato che da strumenti di tutela si sono spesso trasformati in gabbie che impediscono di dare valore alla persona nel lavoro. Le tecnologie intelligenti sollecitano lavoratori dotati di pensiero critico, di intraprendenza, disponibilità ad assumere decisioni anche discrezionali per perseguire gli obiettivi assegnati. Insomma, persone integralmente formate che operano in un contesto che incoraggia la responsabilità. Solo l’uomo potrebbe consegnarsi alle macchine accettando che lo sostituiscano, per paura di meccanismi sanzionatori fondati sull’ antropologia negativa.

  • La formazione attraverso “academy” aziendali è sempre più diffusa anche in Italia. Come afferma il professor Gianfranco Viesti (Università di Bari “Aldo Moro”), l’”academy” rappresenta la terza via tra il modello anglosassone (incarnato dalle “business school”, spesso astratte e non calate nei contesti specifici) e la prassi italiana, legata soprattutto all’ “apprendistato” sul campo, il quale trae origine dalla tradizione artigianale italiana ma è passato a descrivere un contratto di lavoro che si applica oggi anche ad ingegneri e personale d’ufficio. E’ però un dato di fatto che la formazione in azienda sia direttamente proporzionale alle dimensioni dell’impresa stessa e, in uno stato di piccole e medie imprese, questo è poco confortante per il sistema paese. A suo giudizio, le realtà come le “academy”, fondate e gestite direttamente dalle imprese ma che di fatto aumentano il valore del capitale umano della nostra società, dovrebbero essere incentivate dal legislatore? Se sì, in che modo? Come affrontare invece il nodo della formazione all’interno delle PMI?

Maurizio Sacconi: Nel mio territorio di nascita e di elezione si sono sviluppati gli ITS, come si sono prodotte ottime pratiche nell’apprendistato di primo livello per il conseguimento di un titolo di studio o di una qualifica. Le aziende artigiane come quelle industriali collaborano efficacemente alla filiera tecnologico-professionale. Nemmeno in Veneto, invece, ha trovato attuazione l’apprendistato di   L’università, ove più ove meno, è il problema. Inizialmente ostile alla integrazione tra apprendimento teorico e pratico, si è poi aperta con fatica e opportunismi alla condivisione con le imprese di percorsi educativi. Per molti percorsi, meglio due anni in un ITS che tre anni in corsi di laurea dequalificati dalla cattiva interpretazione del modulo “tre più due”. Le Academy sono uno strumento utile che possono realizzare le imprese più strutturate ma il nodo rimane lo stesso. L’apertura del sistema educativo alla co-progettazione e realizzazione di percorsi di formazione integrale.

  • Il concetto di “flessibilità” sul mercato del lavoro è oggi assodato e comunemente accettato. Sono trascorsi oltre vent’anni dall’assassinio di Marco Biagi e dalla legge che ha riformato il mercato del lavoro e che fu a lui intitolata. Se il giuslavorista bolognese fosse qui oggi, in cosa consisterebbe la sua agenda per riformare il mercato del lavoro in Italia? Più in generale, quali sono i punti di incontro tra il solidarismo di stampo cristiano e il laburismo di matrice socialista, che, ancor oggi, si possono considerare vivi ed attuali e che potrebbero cambiare in meglio il nostro Paese?

Maurizio Sacconi: Biagi era cristiano e socialista liberale. Poneva con energia e non retoricamente la scelta della centralità della persona spesso negata dalle autoreferenzialità corporative e dalle ideologie giacobine. Considerava a questo scopo fondamentale il diritto-dovere del lavoratore all’apprendimento “perpetuo”. Intuiva il superamento della rigida separazione tra lavoro dipendente e indipendente perché tutti i lavori avrebbero dovuto transitare dall’orario agli obiettivi ed essere remunerati largamente in base ai risultati. Vorrebbe il suo “Statuto dei Lavori” in luogo di uno “Statuto dei Lavoratori” che ha svolto il suo ruolo nelle fabbriche fordiste e nel mercato delle competenze standard. Ancora oggi constaterebbe pigrizie politiche e resistenze antistoriche ai suoi progetti di allineamento delle norme e dei comportamenti sociali al nuovo mondo che intuiva. Il libro scritto a quattro mani da me ed Emmanuele Massagli, che uscirà nei primi giorni di novembre, si intitola non a caso “Otre nuovo per il vino nuovo”(Edizioni Marcianum)

Come nella parabola evangelica, l’oltre vecchio è inadatto a contenere la novità, alla cui energia non potrebbe resistere spaccandosi e disperdendola.

Alberto Lorenzet

Classe 1997, dopo il liceo ginnasio a Conegliano laureato con lode in Chimica Industriale all’Università “La Sapienza” di Roma. Alumnus del Collegio della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, premiato come “Laureato Eccellente” dell’anno 2021, lavora attualmente presso EssilorLuxottica come ingegnere di produzione nell’ambito dei trattamenti superficiali. 

LinkedIn: Alberto Lorenzet

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