Orizzonti di indagine sulla crisi demografica occidentale

Lorenzo Innocenti, padovano, è sposato e papà di quattro figli. Docente all’Università di Padova, collabora con Aspen Institute Italia ed è stato membro della Commissione bicamerale d’inchiesta sul caso Moro. É consigliere pastorale presso la chiesa di Santa Sofia, a Padova, dove segue anche la pastorale giovani dei ragazzi dagli 11 ai 18 anni. Impegnato in politica, é stato candidato sindaco a Padova, alle amministrative 2022, con la lista civica TornaPadova.

Nelle diverse e sempre più frequenti analisi relative al declino demografico occidentale – alle cause, alle possibili soluzioni – il problema viene di solito affrontato da un punto di vista eminentemente materiale.

L’Italia non fa eccezione, anzi: i tratti post-storici della sua popolazione non fanno che accentuare tale tendenza e darle anche una base teorica più che sensata. Non è un caso che – stando ai dati – la crisi demografica nazionale origini in coincidenza di quella finanziaria globale del 2008, con la netta erosione del benessere economico diffuso nel Paese (particolarmente coinvolto il ceto medio) quale potenziale innesco del forte e progressivo calo delle nascite.

Come spesso ricordato dall’Istat, del resto, gli italiani desiderano mediamente più figli di quelli che poi fanno. Le ragioni della mancata realizzazione di un simile proposito viene individuata, appunto, in motivazioni in varia misura legate a reddito e capacità di sostentamento materiale delle potenziali coppie di genitori. Problematica, questa, confermata, fra gli altri, da Massimo Livi Bacci, docente di Demografia all’Università di Firenze, secondo il quale: “il punto non è tanto il livello del reddito, bensì la fonte dello stesso, che in altri paesi è rappresentata soprattutto dal lavoro, o da trasferimenti pubblici, mentre in Italia prende la forma di trasferimenti familiari”.

Secondo tale tesi, la soluzione del tema della bassa retribuzione lavorativa (annoso e reale in Italia) o una più efficiente politica di incentivi pubblici potrebbe progressivamente risolvere il tema del calo demografico.

Una ipotesi senz’altro sensata – specie viste le già accennate caratteristiche peculiari della popolazione italiana, nella fase storica contingente. Un’ipotesi fondata su di un’impostazione materialista oggi prevalente che, tuttavia, si ritiene non riesca a spiegare interamente il fenomeno.

Assunto centrale del presente scritto è che una strada parallela e – almeno – altrettanto efficace per un rilancio della demografia – in Italia, ma non solo – risieda in un rilancio del sentimento religioso nella popolazione.

Non tanto in incentivi economici, dunque, ma in incentivi alla fede.

A sostenere un simile assunto stanno una serie di dati.

Innanzitutto, sembra interessante osservare come il calo delle nascite in Italia si accompagni, in maniera piuttosto proporzionale, a una flessione (statistica) della fede dei suoi abitanti. Si stima infatti che, nel Paese, la pratica religiosa sia calata, negli ultimi vent’anni, del 50%.

All’altro capo del problema sta poi uno studio dell’Università di Vienna, secondo il quale il grado di religiosità di una persona influenza la realizzazione delle sue intenzioni procreative. In altri termini: le persone religiose fanno mediamente più figli di quelle prive di fede.

Non una novità assoluta, questa, come evidenziato nelle premesse del medesimo studio, il quale accresce tuttavia la conoscenza in materia, dimostrando come la religiosità di un individuo aumenti statisticamente l’incontro fra desiderio procreativo e sua effettiva realizzazione. Cosa che, come visto a proposito del caso italiano, assume una rilevanza cruciale.

Al netto di una serie di innegabili difficoltà realizzative – che del resto incontra, per altro verso, lo stesso approccio materialista – sembra utile fissare alcune proposte per delle politiche di incentivo demografico per via religiosa.

Primo: incentivi pubblici strutturali alle parrocchie.

Le parrocchie sono il lato più visibile, pratico e «quotidiano» della Chiesa sul territorio; istituti a diretto contatto con le famiglie e i singoli, che svolgono un servizio sociale e culturale spesso brillante, in determinati casi sopperendo manifestamente alle mancanze del sistema pubblico. È il caso, ad esempio, dei doposcuola (durante l’anno scolastico) e del grest e dei campiscuola (nei mesi estivi): attività che vanno a colmare l’assenza di un efficiente sistema pubblico di gestione dei figli per i genitori lavoratori. Tali servizi risultano tuttavia slegati tra loro e quasi totalmente affidati alla (maggiore o minore) capacità di iniziativa individuale dei parroci o dei laici che li affiancano.

Un piano di finanziamenti vincolato alla strutturazione di un capillare ed efficiente sistema di doposcuola-grest-campiscuola permetterebbe di avere a disposizione dodici mesi l’anno giovani in età scolare (ipotizziamo 6-18 anni), con la conseguente possibilità di trasmettere un insegnamento cattolico che tante volte manca in famiglia non per reale opposizione, quanto per sostanziale disinteresse.

Nella personale e diretta esperienza di chi scrive, capita spesso che bimbi partecipino alla catechesi senza saper fare il segno della croce né, tantomeno, recitare una qualunque preghiera. Allo stesso modo succede con relativa frequenza che bambini non battezzati chiedano di entrare nella comunità cristiana durante appuntamenti quali, appunto, il grest: straordinario strumento di annuncio, durante cui, al gioco, si affiancano brevi momenti di preghiera e racconto del Vangelo.

Nella coscienza che l’insegnamento più forte nasca in famiglia, ma con la consapevolezza – pure – che gli stessi genitori vadano «ri-catechizzati» attraverso un «primo/secondo annuncio», sembra necessario che i tanti momenti di vuoto, che nella vita di un fanciullo/adolescente generano noia, vadano colmati con una proposta cristiana sempre meno facile da incontrare nella vita ordinaria delle persone.

Il secondo punto risulta interno alla Chiesa e riguarda la modifica della messa domenicale, quantomeno per i ragazzi.

Il Direttorio per le messe dei fanciulli prevedeva con lungimiranza (1973) tale possibilità, che oggi andrebbe riproposta in maniera – ancora – capillare e sistematica. Come ricordato dallo stesso studio dell’Università di Vienna sopra riportato: «la partecipazione alle funzioni religiose risulta lo strumento più attendibile per misurare l’effettivo grado di religiosità di un individuo». Dirsi cristiani senza partecipare con costanza alle messe festive sarebbe come professarsi tifosi di una squadra senza mai assisterne agli incontri.

Non per nulla, come pure visto sopra, il sentimento religioso nella fascia 14-24 anni risulta calato di circa due terzi in Italia, negli ultimi vent’anni. D’altronde, la struttura della messa appare distante non solo dai giovani, ma dalla stessa società contemporanea nel suo complesso: segnata com’è da capacità di concentrazione sempre più brevi e da una orizzontalità nei rapporti che ha in larga parte annullato l’efficacia della struttura gerarchica oratore-uditorio.

Se si vuole rilanciare la frequenza giovanile alle messe, occorre dunque (anche) modificarne strutturalmente l’architettura con un’operazione per certi versi simile a quella che san Giovanni Bosco attuò con l’ideazione degli oratori.

Una direzione in cui va anche il recente intervento di Papa Francesco sulla lunghezza ideale delle omelie.

Terzo: rilanciare la ruralità, per quanto possibile, sfruttando determinate tendenze emerse, in particolare, a seguito della pandemia.

Per ruralità non si deve certo intendere un utopico ritorno massivo alla vita contadina, quanto l’assecondare una tendenza appunto già in atto da qualche tempo: l’abbandono delle grandi città in favore di aree sub-urbane di dimensioni più ridotte, maggiormente inclini a una vita comunitaria e a ritmi meno frenetici.

La vita dei centri sub-urbani e rurali, infatti, risulta maggiormente influenzata da valori religiosi rispetto alle città e, non a caso, entro tali contesti, i tassi di fertilità sono mediamente più elevati che in città.

Anche giudicando eccessive le attuali previsioni, lo scenario di un sempre maggiore sviluppo rurale appare evidente e potrebbe sostenere uno sviluppo religioso (e dunque demografico) maggiore della popolazione. Specie se accompagnato da politiche intelligenti, in particolare sulle infrastrutture, fisiche e digitali.

Riguardo alle prime si intendono principalmente i collegamenti (strade, ferrovie, mezzi pubblici efficienti), i punti di primo soccorso diffusi capillarmente sul territorio e gli istituti superiori non più concentrati quasi esclusivamente nei centri città. Riguardo alle seconde: una copertura di rete veloce, adeguata ai tempi, e una corretta digitalizzazione dei servizi pubblici e privati.

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