La Banca d’Italia e le considerazioni finali del Governatore di inizio estate: lo Stato che si autorappresenta, senza ideologia (o quasi)

Roma, 31 maggio 2024. Via Nazionale ribolle di automobili e taxi che dalla stazione Termini prendono la via del centro storico, sotto lo sguardo, paziente e pacato, delle palme di Palazzo Koch, le quali, svettando lungo la strada, osservano con il giusto distacco quel brulicare di persone e mezzi che anima tutti i giorni la Capitale. 

E’ questa immagine animata (direi pure ”tolkeniana”) degli alberi, che esemplifica al meglio l’istituzione della Banca d’Italia nel complesso sistema di apparati dei quali è costituito il nostro Stato. Palazzo Koch guarda sì dall’alto l’affannarsi del mondo bancario ed industriale, ma non con snobista disprezzo, bensì con vigile attenzione, come risulta ogni anno dalle Considerazioni finali del Governatore, le quali offrono spunti di riflessione da meditare con calma, magari lontani dalla frenetica canicola urbana, ad un gotha della politica, dell’economia e dell’industria per il quale il tempo si dilata nella giusta misura solo durante la pausa estiva. 

Palazzo Koch, interno

Se volessimo ora tratteggiare quale sia stata l’evoluzione della Banca d’Italia e quale sia il ruolo attuale del Governatore (più legato oggi a una “magistratura di influenza”), si potrebbe affermare che la parabola storica della Banca d’Italia, in qualche modo, ha dei tratti comuni con un’altra istituzione pienamente romana, cioè quella vaticana. Nei secoli la Chiesa, come è noto, oltre a esercitare un ruolo spirituale, si è fatta anche carico del governo di buona parte dell’Italia centrale, nel cosiddetto “Patrimonio di San Pietro”. Alla metà del XIX secolo, la gestione dello Stato pontificio era divenuta ormai un anacronismo per un’istituzione religiosa e dalle pretese universalistiche come la Chiesa cattolica, la cui necessità era profondere tutte le energie sul versante spirituale, mentre andavano affermandosi la dottrina socialista, da un lato, e il modernismo, dall’altro. Potrebbe bastare un dato per chiarire la difficile situazione finanziaria dello Stato della Chiesa nell’ ’800, come ha avuto modo di ricordare prima delle elezioni europee del 2019 il Cav. Patuelli (già presidente dell’ABI ed esperto di storia monetaria) intervenendo presso il Collegio dei Cavalieri del Lavoro: lo spread, il famoso differenziale che già all’epoca veniva misurato rispetto ai titoli di stato francesi (e non tedeschi come ora) sfiorava, per lo Stato pontificio, i 3500 punti base. Si trattava del peggior dato tra gli stati regionali italiani, confrontabile solo a quello del Ducato di Parma.

Sono dati che fanno impallidire i 575 punti base dell’Italia nel novembre 2011 e si deve pensare che la situazione era aggravata da un sistema di valute tra stati non unitario né coordinato, cosicché la cattiva fiducia nel debito si trasferiva al sistema monetario, con una conseguente debolezza dello scudo romano e della lira parmense, che certo non avevano il vantaggio della forza dell’euro. Un quadro storico e finanziario, insomma, che potrebbe (forse dovrebbe) farci riconsiderare (e quindi relativizzare) anche la storia recente del nostro Paese.

La Banca d’Italia, in maniera analoga, è riuscita nel tempo ad affrancarsi sempre di più dalle pastoie della politica della Penisola: non poter più stampare moneta, in fondo, è una liberazione da quella classe dirigente che ha pensato di ripianare mance elettorali, “provvedimenti bandiera” e insufficiente crescita con una politica monetaria allegra e accondiscendente, quella dei tempi della “liretta” (preceduta, per altro, da una stagione caratterizzata da una propaganda fascista di segno uguale e contrario, quello della lira “a quota 90”).  In aggiunta, non avere più l’onere di essere l’unico e assoluto direttore d’orchestra di una “foresta pietrificata” (fortunata locuzione coniata nel 1988 da Giuliano Amato per intendere un sistema bancario italiano del tutto privo di dinamismo e schiavo appunto di logiche partitiche) eleva Bankitalia a istituzione di controllo, di studio, di opinione indipendente anche su quello che è il suo humus, cioè il sistema degli istituti di credito del Paese.

Si può dire, nondimeno, che la ristrutturazione dovuta all’integrazione europea non abbia più di tanto scalfito il soft power dell’istituzione di via Nazionale, che pure ha dovuto affrontare negli ultimi anni diversi attacchi ed ingerenze del mondo politico, soprattutto a seguito di scandali come quello di Monte dei Paschi di Siena e delle popolari venete, che hanno contribuito a generare nell’opinione pubblica un sentimento anti-sistema, che ha intaccato pure gli intendimenti dei governi.

Per dimostrare la resilienza e la levatura di Bankitalia, più di tante spiegazioni può valere un esempio pratico: il 19 dicembre 2017 si svolge l’audizione del Governatore Ignazio Visco presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario, presieduta da uno scafato Pierferdinando Casini (non propriamente un giacobino anti-establisment, va da sé). Nel rispetto dei ruoli, Visco si può permettere scambiare un sorriso circa al fatto che l’unico Governatore in Italia abbia sede a Palazzo Koch.

“Io ricevo moltissimi politici, presidenti…come si chiamano? Governatori? Non mi piace, non mi piace chiamarli governatori”.

“Presidenti delle giunte regionali”.

“Ho capito, ma li chiamano governatori”.

All’indomani di una fase pandemica che è stata caratterizzata dall’iperprotagonismo dei Presidenti di regione, questo scambio di battute aiuta a riconsiderare il peso di fenomeni temporanei di notorietà rispetto al ruolo incisivo, ancorché talvolta ammaccato e sotto scacco, degli organi duraturi del deep state della nostra Penisola. 

Venendo alle Considerazioni finali del Governatore, esse sono un tassello importante della liturgia civile italiana. Non hanno forse la solennità delle celebrazioni all’altare della Patria, né la mondanità della prima alla Scala (unico evento meneghino, a dirla tutta) e neppure l’amenità del ricevimento al Quirinale in occasione del 2 giugno. Sono importanti, tuttavia, perché sono una raffigurazione realistica dell’Italia allo specchio: è lo Stato stesso, nei suoi gangli, che si scruta nel profondo, che abbandona la retorica delle continue elezioni e lascia spazio a dati, grafici e numeri che raccontano il nostro presente ed il nostro avvenire. 

In tal senso, a livello di evoluzione storica generale del discorso del Governatore (ma si potrebbe estendere la riflessione parallelamente anche alla BCE), si nota sempre più un approcciodata driven” nella politica monetaria delle banche centrali.

Ad un occhio poco avvezzo, frasi come “se i dati risulteranno coerenti con le attuali previsioni, si profila un allentamento delle condizioni monetarie” possono sembrare ragionevoli, dettate dalla giusta prudenza, financo scontate. In realtà, in questi anni si sta assistendo a un “mutamento di pelle” nella gestione della politica monetaria. La Banca Centrale Europea (e quindi tutto l’Eurosistema) è sempre meno incline a “dirigere” la dinamica congiunturale. Espressioni come il celeberrimo “whatever it takes” di draghiana memoria suonerebbero oggi boriose nei palazzi di Francoforte. La svolta “attendista”, certo, è anche dettata da un minore prestigio di Cristina Lagarde (la cui popolarità è bassa anche tra i dipendenti della BCE) rispetto a Mario Draghi, tuttavia il cambio di paradigma avanza di concerto anche oltreoceano. Il recente forum di Sintra di inizio luglio lo ha confermato, con il Governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, che ha sostenuto come ci si trovi davanti al rischio di strozzare la crescita se non si procede al taglio dei tassi ma anche a potenziali ricadute se si interviene precipitosamente sulla leva monetaria: la conclusione (effettivamente poco limpida da un punto di vista operativo) è quindi quella di non dettare un’agenda con modi e tempi, bensì di aspettare i dati, per l’appunto. 

Venendo ai dettagli delle Considerazioni, come si è accennato, si tratta di uno dei rari sprazzi di auto-consapevolezza della nostra Repubblica, momento che, in quanto tale, non ha timore nel criticare anche l’azione politica. Pungente, quest’anno, il passaggio del Governatore Fabio Panetta, al suo esordio: “Sono cresciuti molto più che nella media degli altri paesi europei… gli investimenti in edilizia, favoriti anche da agevolazioni generosissime…”. Sufficiente attenzione va riservata a quel superlativo assoluto, che nel linguaggio felpato e curiale delle istituzioni esprime, più che critica, vero e proprio scherno per una misura quale il Superbonus, il quale, nei metodi e nelle tempistiche, si è rivelato come fonte di dissesto per le finanze pubbliche, per di più contribuendo al surriscaldamento dell’economia durante il “rimbalzo” post pandemico. 

Guardando maggiormente all’interno degli “ingredienti” che costituiscono le Considerazioni, caratteristica importante sono i continui stimoli forniti al decisore pubblico. Ogni anno, in effetti, la Banca d’Italia non manca di sottolineare, dedicandovi ampio spazio, quali siano le ataviche criticità del sistema italiano (la produttività stagnante, l’alto peso del debito pubblico rispetto al PIL, i ritardi del Mezzogiorno…) ma si assume la responsabilità, con l’autorevolezza che la contraddistingue, di indicare anche delle possibili soluzioni che vanno aldilà della classica formula di “sana e prudente gestione” di un discorso che, inutile negarlo, potrebbe correre il facile rischio di essere l’autocompiacimento di un establishment troppo spesso paludato e verboso.

Ad esempio, quest’anno, si affronta con onestà intellettuale il tema degli effetti negativi sull’economia italiana del calo demografico, proponendo, oltre allo strumento “tradizionale” del flusso migratorio (con tutte le sue complicazioni), anche un incremento dell’occupazione femminile ai livelli degli altri stati europei. Il Governatore si spinge addirittura nel territorio della politica intesa come insieme di policy laddove suggerisce “una revisione del sistema di detrazioni…che riduca i disincentivi al lavoro del secondo percettore di reddito in una famiglia”. Significativo, in questo senso, che le Considerazioni finali si tengano a fine maggio, perché a noto che, tra giugno e luglio, in via XX settembre, a pochi chilometri di distanza, inizia un vero e proprio brainstorming di idee sulla Legge di Bilancio da portare in Parlamento in autunno. E’ quindi facile intuire come la Banca d’Italia, nonostante la sua visione “a volo d’uccello” sull’economia italiana, si coordini secondo le giuste tempistiche con il lavoro degli apparati che, all’interno dei ministeri competenti, hanno una missione più vocata alla formulazione del “dettaglio tecnico” e alla contingenza delle congiunture politiche-economiche. 

Evidentemente, se esiste una parte retorica nelle Considerazioni, oserei dire a tratti “romantica”, in cui il Governatore in carica può permettersi qualche vezzo, essa è appunto quella delle “Conclusioni”. Se è vero che il ministro dell’Economia, per definizione, deve essere ottimista, un discorso simile potrebbe essere fatto per Palazzo Koch, che però riesce sempre a non cadere nell’eccesso, coerentemente al suo ruolo.

“Non riesco a credere che un Paese con la nostra storia, le nostre risorse, le nostre potenzialità, che insieme agli altri Stati membri ha saputo creare una comunità che ha garantito sviluppo, benessere e convivenza pacifica a milioni di europei, non possa oggi superare difficoltà che sono sotto gli occhi di tutti, su cui tutti concordiamo…E’ con la forza di questa prospettiva che dobbiamo guardare con fiducia al futuro”.

Conclusioni, quindi, che più che rimuginare sull’anno passato, guardano al nostro immediato futuro. Suggeriscono, tra le righe, che l’Italia deve tornare centrale nei processi di pace in questo periodo storico in cui la guerra è tornata in Europa. Sono parole che sembrano tracciare la rotta anche per coloro che a breve saranno chiamati a tornare come eurodeputati a Bruxelles, per creare una “comunità” in cui l’Italia sia protagonista. Sono frasi, inoltre, che richiamano ciascuno di noi all’azione e alla re-azione di fronte alle “difficoltà su cui tutti concordiamo”. Sono parole, in ultima, che ci fanno lasciare palazzo Koch carichi di energia, sotto lo sguardo, paziente e rassicurante delle palme imponenti di via Nazionale.  

Alberto Lorenzet

Classe 1997, dopo il liceo ginnasio a Conegliano laureato con lode in Chimica Industriale all’Università “La Sapienza” di Roma. Alumnus del Collegio della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, premiato come “Laureato Eccellente” dell’anno 2021, lavora attualmente presso EssilorLuxottica come ingegnere di produzione nell’ambito dei trattamenti superficiali. 

LinkedIn: Alberto Lorenzet

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