Il distretto industriale in Italia: un modello economico superato?

 

 

Il termine “distretto industriale” evoca forse nelle nostre menti un’età, quella degli anni ’80 del secolo scorso, costituita da luci e ombre, esplosione del debito pubblico e modernizzazione. Ricolleghiamo il “distretto” non tanto ai grandi capoluoghi economici e politici del Bel Paese, sorti sulla spinta dell’industria fordista e di quella di stato, quanto ai territori periferici e rurali della Penisola ed in particolare alla cosiddetta “Terza Italia” (Arnaldo Bagnasco, 1977), ovvero quella porzione di territorio contraddistinta da “città diffuse” tra il Nord-Est, l’Emilia-Romagna e le Marche: un pezzo di Paese che era rimasto ai margini dello sviluppo economico fino agli anni ’70.

Oggi la realtà dei distretti industriali è riconosciuta come uno dei pochi vanti del sistema produttivo italiano, gravato, come è noto, da una pesante burocrazia, da un’imposizione fiscale rilevante, dalle prospettive demografiche non rosee e da un mercato del lavoro tutt’altro che flessibile e facile da riconvertire.

A distanza di circa quarant’anni dal fiorire del modello del distretto, viene da chiedersi se esso sia ancora un paradigma adatto per affrontare le sfide di una dinamica economica ad alta inflazione con tensioni internazionali crescenti sullo sfondo, qual è la situazione odierna.

Innanzitutto, per onestà intellettuale, va sfatato un mito: l’Italia è debitrice del Regno Unito non solo per le filosofie politiche-economiche di Locke e Smith che informano la nostra economia, ma anche per il concetto di “distretto”.

Fu Alfred Marshall in Industry and trade (1890) il primo a individuare in un luogo fisico delle realtà industriali interdipendenti: in particolare, egli vide nella contea del South Yorkshire una rete di imprese cooperanti attorno alla metallurgia, al punto che Sheffield, il centro principale, poteva a pieno titolo definirsi la Steel city.

Nel 1979 Giacomo Becattini, il teorizzatore del distretto industriale, non a caso riprese i testi dell’economista britannico individuando in alcune aree della Toscana quella peculiarità di economia “esterna”, cioè di rami industriali specializzati ancorché fusi in un tutto organico.

E’ innegabile che dagli anni ’80 ad oggi, aldilà delle mere congiunture economiche più o meno favorevoli, vi siano stati dei cambiamenti strutturali nell’economia mondiale che, secondo alcuni, l’Italia ha faticato ad agganciare. In particolare, la progressiva globalizzazione, specie dagli anni ’90, ha paradossalmente ristretto lo spazio dei luoghi e quasi cancellato le nozioni di geografia e territorio in favore di uno spazio dei flussi ipertrofico, costituito da scambi simultanei ed istantanei di capitali, dati e tecnologie (Ruggie, 1993; Castells, 1996; Scholte, 2005).

Negli ultimissimi tempi, tuttavia, a causa delle chiusure delle frontiere determinate dallo shock pandemico questa tendenza ha subito un arresto ed è in corso una razionalizzazione della struttura delle catene del valore, in favore di supply chain più corte e “sicure” in termini di rischio geopolitico. La dimensione territoriale è stata quindi parzialmente riscoperta, dopoché già con l’11 settembre 2001 lo stesso Fukuyama aveva rivisto il suo concetto di “fine della Storia”, che sembra essere ripartita con vigore in conseguenza di fenomeni come il terrorismo, le crisi dei mutui e del debito sovrano nonché la pandemia.

Nel frattempo, mentre gli spazi fisici si restringevano e la Storia pareva avviata ad uno “stagnante epilogo”, come direbbe Croce, anche l’Italia dei distretti soffriva del suo atavico campanilismo e provincialismo.

Esemplare il caso del distretto tessile di Prato che ha conosciuto una riduzione degli addetti e delle imprese del 50% nel periodo 2001-2011 (Balduzzi, 2023), in concomitanza con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio. In quello specifico caso si è assistito ad una mancata cooperazione fra attori locali, per cui gli impannatori hanno portato i produttori locali a confliggere tra loro e con i fornitori esterni nel tentativo di ridurre i tempi di consegna, con conseguenti guerre di prezzo che hanno messo in ginocchio le imprese, oberate dai debiti accumulati per far fronte alla riconversione tecnologica (Locke e Grancelli, 1995).

Ancora, si potrebbe parlare del distretto della seta a Como, entrato in crisi nei primi anni ’90 per la stagnazione della domanda internazionale e per la concorrenza degli stati asiatici emergenti. La mancanza di una risposta coesa alla crisi è stata tale da indurre alcuni imprenditori a delocalizzare le subforniture in Cina ed in Madagascar, comportando una crisi di fiducia sia tra le ditte sia tra l’industria e la comunità di riferimento (Alberti, 2006).

La globalizzazione ha inciso significativamente anche nella Inox Valley trevigiana, che in realtà lambisce anche le province di Belluno e Pordenone, dove esistono realtà impegnate nella fornitura di componenti e compressori (come l’ACC di Borgo Valbelluna, oggi riconvertita dopo lunghi travagli ad altro business). In quel caso, la crisi correlata all’azienda principale (la multinazionale svedese Electrolux che aveva assorbito la Zanussi di Pordenone e la Zoppas di Conegliano) ha determinato uno sfilacciamento generale della realtà distrettuale, con fornitori del colosso nordeuropeo che hanno reagito diversificandosi verso altri settori e/o sganciandosi progressivamente e costituendo un distretto autonomo di componentistica ed elettromeccanica, il “Comet”, con industrie soprattutto del pordenonese (in La Stampa, 17/02/2014).

Va notato che anche i distretti di successo sono stati chiamati a riorganizzarsi per effetto dei rivolgimenti determinati dalle recenti guerre: come rileva il Centro Studi di Confindustria (in Civiltà del Lavoro, n°4/2023) le ditte della ceramica di Sassuolo, che fino a pochi mesi fa si approvvigionavano di argille dal Donbass, ora si riforniscono dall’India, con qualità inferiori e prezzi superiori. Tale riorganizzazione è solo in apparente contrasto coi fenomeni di backshoring in atto a livello mondiale, in quanto la scelta è stata preferire una maggiore sicurezza in termini geopolitici (in pieno accordo con l’idea di reshoring) a costo di un adattamento in termini di flussi e di tecnologie produttive.

Condizionamenti negativi della competizione tra stati europei si possono ravvisare anche nel settore dell’automobile e in particolare nel distretto di Melfi in Basilicata, dove, come nel caso di Electrolux in Veneto, esiste tutt’ora un indotto totalmente dipendente da Stellantis (nel cui capitale è presente lo stato francese ma non quello italiano) e che fatica a riorganizzarsi per la mancanza di altri sbocchi produttivi. In cinque anni, gli addetti della ex Fiat sono passati da 13 a 10 mila (il Sole24Ore, 03/06/2023), complice la fine degli sgravi del “Jobs Act”, il dirottamento di alcune produzioni in paesi a basso costo del lavoro ed il mantenimento di alcuni stabilimenti della “fu” Peugeot in Francia. A minacciare la resilienza del distretto contribuisce anche il cambiamento tecnologico verso l’elettrico, che richiede da parte dei fornitori della ex FCA investimenti cospicui che le piccole e medie imprese lucane faticano ad affrontare, nella totale assenza di una politica industriale che sappia coordinare imprese, comunità locali ed istituti di credito.

Se l’acquisizione da parte di gruppi esteri è sempre fonte di preoccupazione per i distretti italiani (la vertenza “Magneti Marelli” nella Motor Valley emiliana è di attualità), è anche vero che esistono esempi di collaborazione fruttuosa nel riposizionamento delle realtà locali sulle catene del valore globale e di integrazione tra know-how locale e liquidità/gestione manageriale provenienti dall’estero.

Si potrebbe citare quanto accaduto per il distretto calzaturiero nella Riviera del Brenta, dove l’impari lotta per competere sulle dinamiche di prezzo con la Cina è stata risolta con l’arrivo dei capitali delle griffe, soprattutto francesi: i grandi marchi hanno imposto un mercato di segmento più alto, richiedendo al contempo un efficientamento delle produzioni artigianali ed un’innovazione, che hanno incrementato la competitività del sistema locale (Gobbi, 2015).

Particolare menzione merita l’archetipo di questo modello, cioè quanto accaduto per il distretto biomedicale di Mirandola, dove le piccole realtà locali, formatesi tutte come spin-off di una prima azienda attiva nei prodotti per fleboclisi, sono state acquisite da multinazionali estere già negli anni ’70. In questo senso, Mirandola ha precorso una tendenza che si è consolidata nel secolo successivo, di combinazione tra la leva dell’internazionalizzazione e quella della produzione high-tech altamente specializzata (Rinaldi, 2017).

La crisi del modello distrettuale si è tradotta in molti casi in una gerarchizzazione dei rapporti all’interno delle imprese presenti nel tessuto industriale interessato, che in alcuni casi sporadici è stata talmente spinta da porre fine al modello del distretto, ma senza rimpianti. E’ il caso della ”oligopolizzazione “dell’industria dell’occhiale del bellunese (Balduzzi e Perugini, 2023): l’integrazione verticale di Safilo, De Rigo, Marcolin e soprattutto EssilorLuxottica ha finito per inglobare negli anni fornitori e clienti fondendoli in una realtà che va dalla materia grezza alla vendita al dettaglio. Questo non ha affatto determinato un impoverimento dell’economia locale, che anzi può oggi contare su player dell’occhialeria che detengono il 70% della produzione di occhiali di fascia medio-alta, in forza delle potenti economie di scala messe in campo e della verticalità del business (Franini in Forbes, 2022). Rimangono, altresì, piccole e medie realtà nella valle del Cadore, nel Longaronese, nell’Alpago e nell’Agordino, ma la loro presenza sul territorio (di per sé difficoltoso perché montano e oltretutto soggetto a spopolamento) non ha un coordinamento tale da assicurare una dinamica distrettuale.

Guardando nel complesso le casistiche sopra citate sembrerebbe che il sistema distrettuale, inteso per come era nato nell’Italia del secolo scorso, sia destinato in larga parte ad un’inevitabile decadenza derivante dal suo anacronismo rispetto al ciclo economico attuale.

In realtà, come sottolineano G. Balduzzi e M. Perugini (Il segreto italiano, 2023), più che di declino tout court è più opportuno parlare di necessaria metamorfosi per il successo.

Può sembrare un paradosso ma dal 2015 l’area di Sassuolo (tradizionale esempio di distretto vocato alla ceramica) è indicata dell’Istat come “area di grande impresa con caratteristiche distrettuali”, ad evidenziare che il tessuto precedente di PMI è stato sostituito da imprese medio-grandi con caratteristiche specifiche.

In primis, in quest’area a cavallo delle province di Modena e Reggio-Emilia si può notare il consolidamento di un numero ristretto di imprese leader fortemente internazionalizzate (come Marazzi e Florim) che catalizzano il cambiamento nelle forme di capacità strategica e decisionale, creazione di joint venture, gerarchizzazione e verticalizzazione (sono “imprese progetto”, secondo la dizione dell’Handbook of Industrial Districts, 2009). Questo processo, nel caso emiliano, è stato addirittura favorito dalle acquisizioni estere, che hanno iniettato risorse finanziarie e portato la competizione sul terreno dell’originalità e della qualità, non del basso prezzo (si veda quanto operato dalla statunitense Mohawk Industries nei confronti di Marazzi).

Cionondimeno, la piccola impresa non è sparita dall’hinterland sassolese: anziché essere un terzista manifatturiero ha trovato spazio nel terziario avanzato (consulenza, design, servizi informatici).

In secondo luogo, importante è evidenziare il ruolo del sistema creditizio locale, che è andato incontro ad una crescita parallela alla manifattura (si pensi al gruppo BPER) ma non ha smarrito le radici territoriali permettendo la realizzazione di stabilimenti ad elevato livello di automazione, in particolare con gli strumenti del leasing strumentale e immobiliare.

In terzo luogo, va considerato l’ottimo rapporto delle imprese della ceramica con le amministrazioni locali, che ha permesso iniziative a capitale misto pubblico-privato come lo scalo ferroviario di Dinazzano, nodo logistico oggi fondamentale.

Da ultimo, esistono consapevolezza ed orgoglio diffusi da parte delle comunità locali nell’essere un “distretto”, come testimonia il nome di un ente di cooperazione dei comuni nella provincia modenese: Unione dei comuni del distretto ceramico.

Volendo trarre le conclusioni, si può affermare che uno dei tratti per così dire “genetici” del capitalismo italiano, ovverosia il carattere distrettuale, è destinato sì al tramonto (come sostenuto da tanti, tra i quali Giulio Sapelli nel 2013) ma solo se esso resterà statico ed invariante, incapace quindi di cogliere l’avanzamento di mercato e tecnologico.

Se invece, come accaduto a Sassuolo e come indagato da Balduzzi e Perugini, il distretto saprà evolvere nelle dimensioni e nelle relazioni con gli stakeholder, esso continuerà a costituire uno dei cardini del sistema economico italiano.

Occorrerà, tuttavia, che si mantenga, da parte degli imprenditori, la percezione diffusa (forse controintuitiva) del vantaggio competitivo correlato a poter trarre risorse materiali e immateriali in un territorio ristretto, quello distrettuale, il quale, per dirla con Porter, può rivelarsi ancora un vero “diamante”.

Alberto Lorenzet

Classe 1997, dopo il liceo ginnasio a Conegliano laureato con lode in Chimica Industriale all’Università “La Sapienza” di Roma. Alumnus del Collegio della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, premiato come “Laureato Eccellente” dell’anno 2021, lavora attualmente presso EssilorLuxottica come ingegnere di produzione nell’ambito dei trattamenti superficiali. 

LinkedIn: Alberto Lorenzet

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