Omogenitorialità: un diversivo nella crisi del discorso politico. Un punto di vista “liberale”.

Il discorso intorno al concetto di “famiglia” si è risvegliato alcune settimane fa, dopo la morte della scrittrice Michela Murgia. L’evento ha seguito di poco le sue dichiarazioni rese tramite un noto periodico di moda (circostanza che dovrebbe imporre una riflessione) circa la sua famiglia “queer” e “omogenitoriale”.                                                                                

Sono entrato nel progetto editoriale di “Creature” perché avvertivo la mancanza nel giornalismo italiano e nel dibattito pubblico di un punto di vista autenticamente liberale, di quel “liberalismo classico”liberal libertarian, capace di giudicare non la persona bensì i modelli, i paradigmi sociali proposti nel nostro tempo. Per il giudizio sulla persona rimando a Dio, per chi vi crede, o al “foro interno”, per chi crede ancora in Kant (o a buona parte dell’informazione che riceviamo ogni giorno su questo o quel politico o personaggio dello spettacolo).

Come si può intuire da queste prime righe franche e caustiche, intendo scrivere non nel moralismo e nell’ipocrisia di chi si sente tra i “salvati” e i giusti, né tra la rabbia e la meschinità di chi talvolta si sente tra i “sommersi” e ha paura di affermare, anche in astratto, cos’è il bene e cos’è il male, timoroso del politicamente corretto.

Date queste premesse, il lettore comprenderà perché, anziché ficcanasare nelle case e nelle cose altrui (ci interessa poi davvero tanto che famiglia avesse la Murgia?), chi scrive preferisca spostare il focus su un piano più teorico e generale, che non si impantani nel caso particolare di casa propria, dove la regola aurea del liberale diventa “purché funzioni e non disturbi il vicino

Il tema dell’”omogenitorialità” chiama in causa un triangolo pericoloso che ha per vertici la sfera dell’etica, quella della società e quella della politica. Questi tre ingredienti, quand’anche opportunamente mescolati, danno sempre una miscela esplosiva che esita nella polarizzazione delle opinioni, nel rifiuto, nella violenza verbale. Del resto, la politica (con buona pace di chi si dice “radicale”) si fa con l’accordo e il compromesso, mentre l’etica vive nella dimensione del singolo ed è (dovrebbe essere, almeno lei) “massimalista”: se cede su qualcosa, cessa di esistere. Allo stesso modo, la politica tenta di ingabbiare in un discorso logico, strutturato (e necessariamente “fotografato” in un certo punto) un corpo sociale nel quale le sensibilità mutano continuamente.

La miscela dei tre ingredienti è l’unica che però sa rispondere alla domanda fondamentale: è eticamente valido che persone dello stesso sesso chiedano al decisore pubblico di poter avere dei figli e costituire una cellula sociale?

La domanda non è se sia possibile, tecnicamente parlando, siffatta situazione, o se già accada, ma se sia auspicabile.

Attualmente, è favorevole all’omogenitorialità buona parte del mondo progressista, che inserisce il tema nel pacchetto dei cosiddetti “diritti civili”.

E’ fondamentale capire come sia la crisi della politica a porre l’”urgenza” di questo pacchetto. Buona parte della politica, non solo di “sinistra” (come si direbbe semplificando), ha fatto la sua ragion d’essere nella progressiva realizzazione del “castello dei diritti”, che, nella sua formulazione originaria, si sarebbe dovuto estendere per tutti e su tutti gli ambiti, “progressivamente”, per l’appunto.

Il primo livello di tale “castello”, fondato in origine proprio dai “liberali classici”, era quello dei diritti di “libertà negativa”, cioè quei diritti che limitavano il potere sovrano e che, economicamente parlando, erano a basso costo. Già più economicamente rilevante era la seconda tipologia, i “diritti politici”, che non difendevano più la persona e la proprietà dal re ma chiamavano il monarca a condividere la sovranità, in ragione del contributo che le parti sociali offrivano. Il terzo mattone del “castello” erano i diritti sociali: già Hegel aveva intuito che una piena libertà necessitava di un “inveramento” grazie alle istituzioni (da cui il famoso “Stato etico”) ma fu Marx a esporre, con toni accesi, la verità secondo cui serve a poco poter credere in ciò che si vuole e poter votare se non si ha di che sostentarsi.

Ecco allora che la politica, concesse storicamente con relativa facilità di bilancio le prime due famiglie di diritti, ha lavorato poi per decenni al fine di estendere le tutele sociali. La narrazione dell’estensione dei diritti, tuttavia, era supportata fino a pochi decenni fa dall’idea di un “miglioramento continuo”, quantomeno economico. Volendo tradurre in termini semplici ma non troppo semplicistici: la crescita del PIL o la possibilità di indebitamento sono le premesse per estendere a tutti in modo progressivo il Welfare State.

Quando, con le ultime crisi economiche, è diventato difficile promettere nuovi diritti sociali, anzi, si è dovuto razionalizzarli (per esempio nella sanità, coi ticket o con le code), ecco che la narrazione politica sui diritti si è dovuta riposizionare.

Non certo sui diritti politici, visto che sono per buona parte già concessi e, date le affluenze alle consultazioni elettorali, non sono in cima alle priorità dei cittadini.

Il pacchetto dei “diritti civili”, al contrario, per suddette ragioni, è ritornato in auge nelle agende del progressismo. Un vero e proprio forziere dal quale trarre qualcosa da promettere o addirittura una base per un nuovo storytelling da imporre, anche grazie ai media.

Questo meccanismo, per quanto astuto e forse inconsapevole anche per molti di coloro che lo hanno portato avanti, ha avuto un effetto mistificante nei confronti dei cittadini, accomunando i “diritti civili” (quelli veri), per la maggior parte guadagnati cronologicamente prima delle altre famiglie di diritti, a dei “desideri civili”, che sono insorti prepotentemente nel mondo opulento dell’oggi.

Il driver del discorso intorno all’omogenitorialità, infatti, non è stato il ripristino di un qualche “stato di natura” corrotto dalla società, dalle leggi, dalla religione, dalle convenzioni sociali “borghesi”, ma l’affermazione di una volontà (al modo nietzschiano, di potenza) oltre la natura.

Qualsiasi ideologia politica (e quindi qualsiasi policy al suo servizio), più o meno condivisibile, ha alla base una visione antropologica, un discorso sull’uomo e per l’uomo: il socialismo affonda le radici nel bon sauvage di Rousseau corrotto dalla società del denaro, l’assolutismo richiede la presenza di un “grande Leviatano” che riporti l’ordine perché “homo homini lupus”, il liberalismo di Locke e Smith crede in un essere umano che persegue il suo interesse ma in un quadro di moralità e correttezza (tant’è vero che è sviluppato in origine da filosofi-teologi morali).

Si tratta, in tutti i casi citati, di modelli utopistici che guardano a una condizione mai realizzabile perché mai realizzata nella storia: non può esistere uno “stato di natura” perché il racconto di Adamo ed Eva è un mito e l’uomo non esiste da solo in natura. L’uomo nasce come animale politico, aristotelicamente parlando (del resto, gli stessi primati vivono in comunità…).

L’omogenitorialità, invece, non ha nessuna matrice di questo tipo, non ha nessuna finalità “sociale”: prende origine, invece, da una concezione consumistica di società dove, fissato il giusto prezzo, si può acquistare qualsiasi bene e qualsiasi persona, compreso un figlio. La costruzione stessa della parola “omogenitorialità” fa collidere la dimensione del “ghénos”, quindi della famiglia intesa come trasmissione di geni, con il prefisso “omo”, da “omoìos” che rimanda all’io solupsistico, all’individuo, alla voglia del singolo e del momento contro il passare, regolare e cadenzato del genus e della gens.

Il contesto, invero, è quello in cui due persone dello stesso sesso chiedono di avere il diritto non di ESSERE come le coppie eterosessuali ma di AVERE quanto è nelle disponibilità teoriche di una famiglia.

Paradossale, allora, che siano i partiti progressisti a farsi i promotori della gestazione per altri, atto, che, in ultima analisi, è il trionfo del capitalismo borghese e della cultura del denaro tanto avversata da Marx.

Voglio ribadirlo: non si tratta di attaccare qualche unione. Si tratta cinicamente di capire che lo stato ha promosso l’istituto familiare, per come lo conosciamo da millenni, poiché esso gli ha procurato un vantaggio indubbio, brutale se si vuole, ovvero ulteriori cittadini in grado di perpetuarlo.

Nella tutela statale della famiglia e della genitorialità, per un liberale classico (“alla Smith”, per intenderci), non ci può essere spazio per un discorso che non contempli anche l’interesse dello stato medesimo, che in questo particolare ambito si risolve nel promuovere quell’istituto che assicura un incremento demografico o quantomeno una continuità della popolazione.

Coloro che si definiscono liberal hanno perso questa consapevolezza: si illudono che estendere gli istituti e i diritti indiscriminatamente significhi estendere il benessere e migliorare la vita del singolo. Dimenticano volutamente la realtà e la lezione di Hegel: l’uomo non è mai libero nella giungla delle infinite possibilità, ma, paradossalmente, la sua libertà esiste perché si incontra e si scontra con quella degli altri singoli e dello stato, che è esso stesso un attore che deve, deve perseguire il proprio interesse, piaccia o meno ai liberal.

Concludo tornando al titolo di questo pezzo: l’enfasi attuale del discorso pubblico su temi come l’omogenitorialità rispecchia una crisi della politica, la quale, incapace di mettere a terra riforme serie del welfare per delle società occidentali sempre più problematiche e ormai aliena dal farsi ascoltare nelle strade, talvolta pericolose, delle nostre periferie, si ripiega in poche case private e ricche, fuggendo dai problemi reali e da quella nobile eccezione che dovrebbe essere rappresentata dalla classe dirigente, dall’uomo politico: occuparsi del proprio interesse (come tutti) ma anche di quello dello stato come fosse il proprio.         

Alberto Lorenzet

Classe 1997, dopo il liceo ginnasio a Conegliano laureato con lode in Chimica Industriale all’Università “La Sapienza” di Roma. Alumnus del Collegio della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, premiato come “Laureato Eccellente” dell’anno 2021, lavora attualmente presso EssilorLuxottica come ingegnere di produzione nell’ambito dei trattamenti superficiali. 

LinkedIn: Alberto Lorenzet

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