Il Lavoro: traiettoria di senso umano e verità oltre l’abitudine

Il lavoro, quale elemento distintivo della identità caratterizzante ciascun individuo attivo, è questione densa di significato e meritevole di condivisa riflessione.

L’automatismo, indotto dalla quotidiana frenesia, attraverso cui l’agire lavorativo tratteggia in modo scandito le giornate, distoglie spesso e comprensibilmente l’attenzione dalla ri-scoperta di senso intorno al fondamento vero dell’operare. Non si vuole qui subito richiamare, senza necessaria e fondata premessa, la configurazione dell’uomo quale “custode del creato” e “co-partecipe” all’opera inesauribile del Creatore; si vuole, piuttosto, cominciare il nostro ragionamento evidenziando la collocazione del lavoro all’interno di un perimetro assiologico dei valori di appartenenza di una comunità e di una storia, non confinandolo a mero e vorticoso ricamo d’ore che ricamano il fluire del tempo.

Ecco dunque che, aderendo a questa prospettiva, l’agire operoso così come i risultati che ne sono conseguenza, diventano perimetro di valore condiviso da intendersi quale arricchimento tanto della persona quanto della comunità. Il prestatore d’opera, coinvolgendo la propria individualità in un processo organizzato, contribuisce insostituibilmente alla creazione di una catena di valore che è tanto più autentica e a portata d’uomo quanto più di questo ne sa trasmettere il tratto unico e insostituibile.

Ecco, dunque, una questione distintiva da segnalare: la traiettoria produttiva di determinati beni così come la fornitura di servizi specifici non possono essere avulsi dal contesto entro il quale si trovano inverati. Il prodotto, il processo, la formazione, il servizio sono elementi caratterizzanti un tessuto che ne è matrice e perimetro.  

 

È considerazione necessaria e preliminare quella secondo cui ciò che accomuna una comunità è, allo stesso tempo, ciò che la distingue. Ecco quindi che, attraverso una prospettiva diacronica volta a indagare, seppur per cenni, le origini della nostra moderna organizzazione economico-sociale, è possibile cogliere il non disgiungibile legame fra identità (personale e collettiva) e prodotto, al fine di percepirne l’intimo valore propulsivo nel realizzarsi continuo della storia umana. 

 

Volendo cominciare il nostro ragionamento riferendoci all’etimo della parola, “lavoro” deriva dal termine latino "labor" (lett. fatica), e si ricollega, dunque, all’idea di uno sforzo che può coinvolgere o meno tutte e tre le dimensioni della persona: quella fisica, quella mentale e quella spirituale.

Si configura quindi come una fatica volta al raggiungimento di un fine. Il lavoro non è mai gratuito in quanto, per ogni investimento in termini di tempo ed energia, consapevolmente o meno ci si aspetta sempre un proporzionato compenso. Ed anche quando il lavoro è volontariato la mercede, seppur non immediatamente individuabile in termini di denaro, resta comunque attesa almeno nei termini di un contraccambio di diversa natura: ci si aspetta sempre qualcosa in cambio di quello che si produce a meno di non lavorare inutilmente ma, oltre che sciocco sarebbe innaturale.

Tra il lavoro e il prodotto del lavoro vi è l'attesa: ogni fatica è indirizzata ad un fine non immediatamente conosciuto e fruibile, ma atteso: un compenso, un favore, una soddisfazione, un oggetto. Il lavoro, quindi, è un investimento di fatica volto al raggiungimento di un fine. Tra la fatica e il fine, dicevamo, vi è l'attesa, che non è riconducibile ad un mero tempo misurabile, ad un aspettare (lett “aspicere”, guardare), perché il frutto del lavoro non è immediatamente presente al lavoratore. Se ne possono immaginare i contorni, definirne i connotati nella mente ma il prodotto finale è sempre oltre l'immaginato, a causa dell'inesauribile scarto tra ideale e reale.

Date queste premesse, il verbo che meglio aderisce alla dimensione che qui tratteggiamo è “attendere”, in quanto implicante una tensione, densa in sé stessa di investimento emotivo, intellettuale e fisico, che non è necessariamente consapevole della propria meta.

Il lavoro è dunque un mezzo per raggiungere un fine, il prodotto del lavoro, che dà senso e consistenza all'atto del lavorare. Il fine, oltre che programmato, è anche desiderato.

Ci sia concesso il ricorso all’esemplificazione: l'imprenditore edile che costruisce una casa pone tutte le proprie energie per fare in modo che la stessa trovi compiuta realizzazione secondo il progetto iniziale, in altre parole, fa in modo che la realtà si adegui nel miglior modo possibile all'idealità. Se il fine dà consistenza al mezzo, un fine grande richiede un investimento di tempo ed energia maggiore nel lavoro, rispetto ad un fine piccolo, come la costruzione di una città richiede maggiore dispiegamento intellettuale e fisico rispetto alla costruzione di una capanna.

A scanso di equivoci vogliamo subito liberare il lettore dal sospetto che il nostro pensiero affermi che il fine giustifica i mezzi: sarebbe superficialmente poco accorto non tenere in considerazione che "per quanto grande e santo sia un obbiettivo, il nostro destino è legato al giogo dell'energia, alla luce o alle tenebre che avremo usato per raggiungerlo”. L'affermazione che il lavoro ha consistenza nel fine significa che quanto più il fine è virtuoso, tanto maggiore è la possibilità di spazio per l'amore e il bene che il lavoro concede.

Il lavoro, accanto alla famiglia, lo sport, gli amici, deve quindi avere un tempo dedicato così come lo hanno tutte le altre occupazioni della vita. L'obbiettivo di questa riflessione è dare una direzione, e sintanto che il tema che essa affronta si interseca ed entra necessariamente in relazione con altri temi, anche la riflessione deve necessariamente estendersi a tutti quegli ambiti che con il tema del lavoro hanno a che fare. Abbiamo considerato che il lavoro è una occupazione accanto all'altra e rappresenta un mezzo per raggiungere un fine, che è il prodotto del lavoro. Il fine del lavoro rientra quindi in quell'insieme di finalità che concorrono alla vita dell'uomo, in tutti i suoi aspetti. Conveniamo, insieme a gran parte della letteratura filosofica che il fine della vita umana è la felicità, allora il lavoro sarà tanto più nobilitato quanto più avrà come mira la realizzazione della felicità.

Ai primordi della civiltà umana il fine del lavoro era la sopravvivenza. Sostanzialmente il lavoro coincideva con la caccia e l'accudimento della progenie, mentre l'uomo procurava il cibo la donna accudiva i figli e si occupava della "casa". Il lavoro nasce quindi come una necessità umana, nella Bibbia viene ribadita da questi versetti: "'Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero riguardante il quale ti avevo dato questo comando: Non ne devi mangiare! - la terra sarà maledetta a causa tua: con fatica ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Essa ti produrrà spine e cardi e mangerai l'erba della campagna. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tu ritorni alla terra, perché ne sei stato tratto: perché polvere sei e in polvere ritornerai'."" (Gn 3, 17-19). Per l'uomo antico il lavoro non ha altro significato se non quello della bruta e mera sopravvivenza; in questa condizione possiamo accostare il lavoro dell'uomo a quello dell'animale.

Con l'evoluzione della civiltà il lavoro assume un significato diverso, e molteplici ne sono le direzioni di senso. L'organizzazione delle prime civiltà a partire da quella sumera prevede la divisione di compiti fra i settori dell'agricoltura, dell'artigianato, delle costruzioni, del commercio e dell'amministrazione del culto. Il campo semantico del lavoro si interseca con quello del talento e del compito. Esso ha quindi anche una traiettoria esistenziale oltre che meramente naturale: è il motore della realizzazione personale dell'individuo, che realizzando sé stesso porta beneficio alla società.

È però nel mondo latino che il lavoro viene esplicitamente a contatto con il concetto di felicità. La felicità per i latini, infatti, ha a che fare con il "portare frutto". La felicità è la concretizzazione del talento di ciascuno in qualcosa che sia fruibile da tutti, diciamo pure dalla società. Il portare frutto è quindi il compito da perseguire da parte di ciascuno affinché la società goda dei frutti di tutti e possa svilupparsi nell'abbondanza. Così il lavoro diventa un ponte tra la dimensione individuale e quella sociale, lega l'individuo alla società, gli permette di assumerne una funzione strutturale. Tuttavia, come alberi diversi producono frutti diversi, così anche uomini diversi hanno talenti diversi e ognuno contribuisce al benessere in modo diverso cosicché una società ideale è una società che dà a tutti la possibilità di esprimere al meglio le proprie caratteristiche caratteriali e professionali.

Riassumendo possiamo affermare che il lavoro umano è indirizzato in due direzioni: la direzione della soddisfazione di un bisogno materiale, che è la sussistenza, ed è la prima direzione di senso. L'efficientamento produttivo, poi, sviluppa la divisione del lavoro, che rende protagonista il singolo nei confronti della comunità in tal modo realizzando compiutamente la dimensione esistenziale. 

Se il singolo ha un suo proprio carattere e potenziale così anche la comunità cresce e si differenzia rispetto alle altre comunità che abitano il mondo. Una comunità si adatta al territorio che abita e, allo stesso tempo, ne lavora il territorio per adattarlo meglio alle sue esigenze. È senza dubbio che le comunità dell'entroterra abbiano sviluppato un'economia diversa rispetto alle comunità della costa e a quelle montane.

Almeno agli albori della storia dell'uomo, quindi, tra territorio e comunità si instaura una doppia implicazione, e la comunità tende a sviluppare quelle inclinazioni che meglio le occorrono per adattarsi ad una situazione specifica.

Volendo focalizzare la nostra attenzione a quanto, probabilmente, più ci è famigliare, prenderemo ora in considerazione la nostra realtà; considerando la totalità delle comunità che abitano la penisola italica la situazione è particolarmente favorevole perché essa, per la conformazione del territorio, la posizione e per il clima, presenta delle condizioni particolarmente vantaggiose per uno sviluppo compiutamente articolato: agricolo, industriale e commerciale.

Già in epoca romana la penisola era un centro economico e culturale florido. Il clima particolarmente favorevole ha permesso la produzione di vino ed olio, inoltre l'artigianato ha incontrato uno sviluppo significativo a motivo del commercio con le altre zone del Mediterraneo nel cui alveo la penisola ha una posizione straordinariamente centrale e strategica, e con l'Asia.

Da questo punto di vista, i romani hanno saputo ottimizzare con astuzia la favorevolissima collocazione della penisola e il facile accesso al mare per importare le materie prime che poi sarebbero state lavorate in prodotti finiti, in particolare: la produzione del vetro che richiedeva sabbia silicea importata dall'Egitto, l'ossido di stagno, necessario per la produzione di ceramica smaltata importato dalla Britannia. Inoltre, il fiorire della produzione di fibre tessili si deve all'importazione del cotone dall'Egitto e dal Medio Oriente, la seta percorreva il suo tragitto dalla Cina, il lino veniva invece coltivato in Italia. Altri settori erano la produzione di pietre preziose a partire dal marmo, di cui la penisola è ricca, e la realizzazione dei metalli preziosi dall'oro del Nordafrica e dalle gemme dell'India. Riportiamo poi quale esempio vigoroso e inconfondibile, tutte le opere pubbliche edificate dai romani tra cui ponti, acquedotti e strade. La tradizione manifatturiera e ingegneristica italiana ha quindi origini antiche, e vanta un patrimonio di esperienza e ingegno di lungo corso di cui le civiltà post romaniche hanno goduto.

Lo sviluppo dell'eccellenza italiana prosegue, lungo l’orizzonte del tempo, anche in età medievale. Le prime corporazioni nascono proprio in Italia perché qui le città erano centri di intense attività commerciali e artigianali sia a motivo del patrimonio di saperi che ereditavano dalla civiltà romana che alla loro posizione geografica favorevole al commercio marittimo e terrestre. Tutto ciò ha promosso lo sviluppo di un’economia mercantile dinamica, - pensiamo a centri portuali come Venezia e Genova-, e ha portato all'emergere di un forte senso di identità cittadina condivisa da artigiani e mercanti. La grande varietà di professioni ed arti, inoltre, ha portato ad una specializzazione dei mestieri e ad una conseguente dinamica volte a proteggere gli interessi di un’omogenea categoria professionale, oltre che a garantire degli standard di eccellenza ai prodotti.

Se ancora oggi l'Italia vanta competenze distintive in ambiti totalmente differenti, è proprio perché la storia di questo Paese racconta l'abilità delle persone che lo hanno abitato di sapersi integrare con il territorio e valorizzarne le potenzialità.

Si è voluto fare un excursus storico a dimostrazione di come il lavoro umano sia dunque propriamente trasformativo. Il saper organizzare il materiale a portata di mano per trarne il meglio è la realizzazione dell'ultima direzione di senso del lavoro stesso: quella escatologica. Tornando infatti alla Bibbia scopriamo che il lavoro fa parte della creazione di Dio per l'uomo fin dall'inizio: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nell'Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gen 2, 15). Se vissuto da questo punto di vista il lavoro è il mezzo che l'uomo ha per cooperare con Dio al progetto originario. Se Dio continua a operare nel mondo lo fa perché la realtà creata possa assumere i connotati del progetto originario, cioè tendere alla somiglianza con lui. Anche l'uomo può entrare a far parte del progetto finale nella misura in cui le sue azioni contribuiscano a realizzarlo materialmente, trasformando con il proprio ingegno la materia che il Creatore ha messo a disposizione della mano umana. La rivelazione del volto di Dio diventa la cifra peculiare del lavoro, a meno di perdere il valore della mondanità.                                                                                      

Se nella modernità si è spesso parlato di alienazione dell'uomo dal prodotto del lavoro e da sé stesso, è forse perché, a conti fatti, lo sviluppo industriale si è spesso intrecciato più con un interesse economico-finanziario che con un beneficio in termini umanistici. È indubitabile che servono soldi da investire nel progresso tecnologico e scientifico che garantisca l'evoluzione umana, ma è altrettanto vero che molto spesso non si è disposti a rischiare un investimento che non comporti anche un ritorno immediato in termini di denaro.

Una delle sfide attuali più urgenti per il futuro, è quella di tornare a pensare al lavoro come ad un modo per impiegare bene la propria vita al servizio del mondo, oltre i termini di un mezzo per la soddisfazione di bisogni materiali. Il rischio, altrimenti, è quello di coltivare male il giardino che ci è stato affidato e tendere, per ciò stesso, ad un fosco avvenire in cui l’umanità disattende alla sua vocazione.

A questo ultimo fine, si ritiene opportuno concludere il contributo, senza pretesa di organica compiutezza ma con l’intento di suggerire una provocazione al lettore, organizzando fra loro alcuni frammenti di attualità.

Se, negli ultimi anni, la dimensione locale è stata ampiamente una delle categorie più trascurate per la realizzazione complessiva del prodotto, quello stesso contesto internazionale che spesso, nella sua irruenza, ha comportato lo smarrirsi d’ogni riferimento, sta oggi orientando il suo focus alla ri-allocazione della produzione.

Diversi sono i catalizzatori di tale tendenza: le interruzioni della catena di approvvigionamento durante il Covid, l’automazione migliorata che consente ai robot di ridurre i costi di produzione, soprattutto, le crescenti tensioni con la Cina nei confronti degli Stati Uniti, hanno portato a nuovi movimenti per trasferire la produzione sul suolo americano o in paesi "amici" (cd. friendshoring). La Cina sta voracemente tentando di sovvertire il consolidato equilibrio globale delle influenze e dell’allocazione della ricchezza, a questo fine: ha rinnovato il suo riavvicinamento alla Russia, avvicinato con successo l'Arabia Saudita all'Iran e sembra aver attirato anche il presidente brasiliano nella sua alleanza contro gli Stati Uniti.

I paesi occidentali vogliono quindi evitare qualsiasi rischio legato all'eccessiva esposizione ai produttori situati in queste regioni potenzialmente ostili o in aree a rischio (come Taiwan per la produzione di semiconduttori).

L'Europa è parte di questa tendenza, risulta interessante a questi fini richiamare l’importante piano europeo per sovvenzionare la delocalizzazione della produzione di semiconduttori per un importo di 43 miliardi di euro, in simmetria alla destinazione di bilancio da 50 miliardi di dollari degli Stati Uniti, al fine di ripristinare l'indipendenza tecnologica dell'Europa nel settore competitivo e strategico dei chip elettronici. Il commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton, ha dichiarato di voler raddoppiare la quota dell'Europa nelle vendite globali di semiconduttori dal 10% al 20% entro il 2030. Il presidente Macron ha elogiato la reindustrializzazione della Francia nel suo discorso alla nazione, citando le 200 fabbriche che hanno riaperto nel Paese negli ultimi due anni, e ha confermato che il Paese non indugerà nella prosecuzione della traiettoria così avviata.

La ri-allocazione della produzione è in linea con la frattura del mondo nuovo e coagula intorno a sè le necessità della sicurezza della produzione, dell’indipendenza industriale e tecnologica e il desiderio, urgente e frenetico dei governi, di espandersi nell'alta tecnologia. È inoltre un trend al quale non possiamo fare altro che accordare la nostra convinta adesione qualora esso sappia farsi portatore di una ridefinizione del prodotto quale elemento di identificazione di un territorio e di una società umana, entrambi diversi da altri e per ciò stesso unici nel loro esistere, attraverso una consistente opera di rafforzamento delle strutture, infrastrutture e di una convinta re-industrializzazione.

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Milei e la sfida libertaria per l’Argentina.

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Omogenitorialità: un diversivo nella crisi del discorso politico. Un punto di vista “liberale”.