Milei e la sfida libertaria per l’Argentina.

È il 20 novembre 2023 e sono trascorsi pochi minuti dalla mezzanotte quando Sergio Massa telefona a Javier Milei per concedere la vittoria elettorale: è la fine del peronismo, la prima volta al mondo di un presidente libertario.

Siamo in Argentina, la patria del tango, delle pampas e del mate, dove metà della popolazione ha origini italiane e l’italiano è la seconda lingua più parlata nel Paese.

Il tasso di inflazione a settembre ha raggiunto il 138% (il più alto da una trentina d’anni), la valuta è in caduta libera con il cambio parallelo che, per la prima volta, ha visto il peso scivolare oltre quota 1000 sul dollaro e il tasso di povertà sfiora il 40%. Un Paese arrabbiato e sfiduciato che nell’ultimo secolo non ha (quasi) mai conosciuto una stagione di stabilità politica ed economica. Impossibile, potrebbero pensare alcuni. Verifichiamolo insieme. Nel 1943 un gruppo di ufficiali nazionalisti, tra i quali brilla Juan Domingo Peron, prende il potere inaugurando la stagione del peronismo, dottrina politica che unisce tratti del corporativismo fascista con l’anima più populista del sindacalismo rivoluzionario. Il colonnello vince le elezioni del 1946 e rimane al potere fino al 1955, quando viene rovesciato da un colpo di Stato ed esiliato. Dopo alcuni governi abbastanza stabili, nel 1973 sale al potere Hector Josè Campora, fedelissimo di Peron, il quale, approfittandone, rientra trionfalmente in Argentina per diventare poco dopo nuovamente Presidente. La moglie, Maria Estela Martinez (“Isabelita”), viene nominata Vicepresidente e prenderà il posto del marito quando quest’ultimo morirà. Destituita nel 1976, la presidenza è assunta dal generale Jorge Rafael Videla, che inaugura una delle dittature più feroci al mondo, ricordata per gli oltre 20.000 desaparecidos. Nel 1983 il ritorno alla democrazia e il susseguirsi di molteplici governi non frenano le difficoltà economiche che, nel corso degli anni, diventano sempre più profonde. Nel 2003 viene eletto Presidente il peronista Nestor Kirchner al quale spetta stipulare un accordo di ristrutturazione del debito con il Fondo Monetario Internazionale, evitando così il default. Sua moglie, Cristina Fernandez de Kirchner, gli succede dal 2007 al 2015, allorquando il centrodestra di Mauricio Macri vince per un soffio le elezioni, aprendo una stagione neoliberista. Il Paese non si regge da solo e torna a chiedere aiuto al FMI, ma l’indebitamento passa dal 50 al 90% del PIL tanto da causare il default selettivo: lo Stato è incapace di ottemperare ai suoi impegni. Nel 2020 la sinistra peronista torna al potere con Alberto Fernandez il quale afferma che il debito argentino è impagabile e richiede che il FMI e gli obbligazionisti rinegozino termini, capitale e interessi. Il debito pubblico e l’inflazione galoppano, riportando il Paese sull’orlo del baratro. In sintesi, un susseguirsi di governi di centrosinistra (con una breve parentesi di centrodestra) che hanno cercato di arginare il peggio senza mai risolvere il problema alla radice.

Nel frattempo, però, nelle aule universitarie e nei programmi radiofonici si è fatto strada un professore di economia, Javier Milei, classe 1970, laureato all'Università di Belgrano con in aggiunta due master rispettivamente all'Istituto per lo Sviluppo Economico e Sociale e all'Università Torcuato di Tella. Dopo aver guidato diversi enti pubblici nazionali e internazionali, nonchè il gruppo bancario HSBC, diventa membro del B20 (il gruppo di politica economica della Camera di Commercio Internazionale) e del Forum Economico Mondiale. Scrive una serie di libri di successo a sfondo economico, ma il segreto della popolarità sta nelle sue idee e, soprattutto, nel suo modo di esprimersi: irruento, impetuoso e incontenibile, non usa mezzi termini nell’esprimere il totale dissenso nei confronti dei governi argentini degli ultimi decenni, attaccandoli per gli scarsi risultati e proponendo ricette economiche estreme e totalmente opposte: lotta sfrenata allo statalismo, liberalizzazione del mercato e tagli alla spesa pubblica. Si definisce un “anarco-libertario”, lontano dalla sinistra peronista ma anche dalla destra macrista, vicino alle teorie economiche della scuola austriaca del XIX secolo. I punti di riferimento sono Carl Menger, Ludwig von Mises e il premio Nobel Friedrich Hayek, armoniosamente concordi nel sostenere che nella società le maggiori decisioni economiche devono essere intraprese dagli individui e non dallo Stato. Non stupisce, perciò, che le idee di Milei facciano facilmente breccia in un popolo testimone del fallimento delle decennali politiche assistenzialiste governative. Nell’Indice di Libertà Economica della Heritage Foundation l’Argentina è al 144° posto su 177 Paesi e i sondaggi rivelano come sia tra i Paesi più favorevoli all’economia di mercato.

Facendo leva sul malcontento generale, Milei decide di scendere in campo presentandosi alle primarie presidenziali di agosto, il turno elettorale preliminare introdotto dall’allora presidente Cristina Kirchner che obbliga i partiti che intendono partecipare alle elezioni presidenziali a presentare i loro candidati; qualora non superassero l’1,5% dei voti, non sarebbero ammessi alla vera e propria competizione per la presidenza della Repubblica. Secondo i maggiori sondaggisti, le principali coalizioni sono la favorita Union por la Patria, il raggruppamento peronista guidato da Sergio Massa (Ministro dell’Economia dell’uscente Governo Fernandez), e Juntos por el cambio, coalizione di centrodestra erede dell’ex Presidente Mauricio Macri. La Libertad Avanza è invece il nome scelto da Milei per il suo blocco populista-libertario, che si presenta con un programma a dir poco rivoluzionario. Le elezioni si tengono domenica 13 agosto e i risultati sono stupefacenti: tolte le formazioni minori, Milei guadagna il primo posto con il 29,86%, seconda la coalizione di centrodestra (28%) e terzo il centrosinistra (27,28). Il candidato “pazzo” e “pericoloso” secondo i grandi media nazionali e internazionali conquista quasi un terzo dell’elettorato e, soprattutto, sembra abbia qualche chance di diventare Presidente!

Fin da subito l’anarco-libertario scalda i motori per la vera e propria campagna presidenziale, alzando ancor di più i toni: si presenta ai comizi con una motosega in mano (simbolo dei tagli che effettuerà alla casta) e promette la chiusura di dieci ministeri e della banca centrale argentina, la riduzione del 15% della spesa pubblica, tagli alle tasse e privatizzazione delle grandi imprese pubbliche. È contrario alla legalizzazione dell’aborto, mentre è altalenante sulla liberalizzazione delle droghe e sui matrimoni omosessuali, critica apertamente Papa Francesco (definendolo, senza mezzi termini, “comunista”), supporta la libertà vaccinale ed è critico sulle politiche green, ma il principale cavallo di battaglia è la dollarizzazione dell’economia argentina, con il conseguente abbandono del pesos e l’adozione del dollaro. Secondo gli esperti ciò farebbe crollare l’inflazione in quanto non vi sarebbe più la monetizzazione del disavanzo di bilancio, ma comporterebbe la perdita di sovranità monetaria con la conseguenza che le crisi di debito sovrano rischierebbero di essere ancora più frequenti.

Gli avversari, dal canto loro, non si distanziano dalla loro retorica tradizionale: meno tasse e più sicurezza a destra e più assistenzialismo e lotta alle povertà a sinistra.

In vista del primo turno i sondaggi danno Milei per vincente senza però riuscire ad evitare il ballottaggio. Ma i risultati di domenica 22 ottobre rivoluzionano ancora una volta le aspettative: Massa arriva primo con il 36,78%, secondo Milei (29,99%) e terza la conservatrice Patricia Bullrich (23,81%). Per il loco (il soprannome del professore) è una battuta di arresto. Non solo, lo stesso giorno si è votato anche per le due assemblee legislative e il centrosinistra ha nettamente prevalso. Di fronte a questi esiti l’establishment tira un sospiro di sollievo: il popolo non solo teme l’estremismo di Milei, ma il peronismo sembra essere per l’elettorato il male minore.

A questo punto la palla passa alla terza candidata: sarà lei a decidere a chi dare l’appoggio in vista del ballottaggio. Massa le propone un “governo di unità nazionale che metta fine alla storica grieta (spaccatura) fra gli argentini”. Lei rifiuta: “Non ci congratuleremo con uno dei ministri (ndr Massa) del peggior Governo che questo Paese abbia mai avuto". L’indicazione di voto è chiara: meglio un salto nel vuoto che l’agonia peronista. Gli opinionisti si domandano, però, fino a dove gli elettori di Juntos por el cambio, in particolar modo i moderati, seguiranno la loro leader. Quasi tutti i sondaggisti sembrano essere invece più sicuri: Milei è di poco in vantaggio su Massa, ma tutto dipenderà dagli indecisi. A pochi giorni dall’appuntamento elettorale i due si sfidano in un calzante dibattito televisivo che vede prevalere, per toni ed esperienza, il candidato peronista, mentre l’anarco-libertario sembra impacciato e, stranamente, spento. È davvero così oppure è una strategia per non incutere paura all’elettorato più centrista?

Domenica 19 novembre i seggi si aprono nell’incertezza e molti prospettano una sfida all’ultimo voto. Alla chiusura l’affluenza si ferma al 76,32% contro il 77,14% del primo turno. I primi risultati sono quelli esteri, ininfluenti per il numero di votanti, ma decisivi se i due candidati saranno testa a testa: Massa vince in Francia e Svezia, Milei in Australia e Austria, ma anche in Italia.

Gli esiti nazionali invece tardano ad arrivare perché la legge impone che siano divulgati tre ore dopo la chiusura dei seggi, ma nel comitato elettorale di Milei i militanti sono ottimisti e iniziano a cantare “la casta ha paura!” e “Massa spazzatura, tu sei la dittatura!”. I primi dati ufficiosi iniziano ad arrivare e sono tutti unanimi: il leader de La libertad Avanza è avanti in tutto il Paese. Il governatore Gustavo Valdès è il primo ad esporsi sui social: “Milei ha vinto nella provincia di Corrientes”. L’ottimismo tra i sostenitori del loco sale man mano che il tempo passa tanto che si parla addirittura di un trionfo. La Direzione elettorale annuncia che i risultati potrebbero essere resi noti prima del tempo legale previsto, ma Sergio Massa decide di non attendere e prende la parola: “I risultati non sono quelli che ci aspettavamo. […] Gli Argentini hanno scelto un'altra strada. Da domani il compito di dare certezze e trasmettere garanzie sul funzionamento sociale, politico ed economico spetta al Presidente eletto. Ci auguriamo che lo faccia”. Alea iacta est. Milei ha vinto! Nel quartier generale del candidato libertario esplode la festa e, per ironia della sorte, risuona il classico Love After Love dell'artista kirchnerista Fito Páez. Nel frattempo arrivano i primi risultati ufficiali: Milei 56%, Massa 44%. Più che una vittoria. Il Presidente eletto prende allora la parola e, con tono (stranamente) cauto e garbato, pronuncia tre frasi che riassumono tutta la sua battaglia politica: “Oggi inizia la fine della decadenza argentina. Oggi cominciamo a voltare pagina. Oggi finisce il modello dello Stato impoveritore onnipresente”. Ringrazia i suoi sostenitori e i leaders politici che hanno scelto di supportarlo al secondo turno, in particolar modo Patricia Bullrich e Mauricio Macri.

Poche ore dopo arrivano i risultati definitivi (55,65% vs 44,35%) che assegnano a Milei 14.554.560 voti, record per un Presidente vincente dal 1983. Si è imposto in 20 delle 23 province e anche nel Distretto Federale della capitale. Nella provincia di Cordoba, storica roccaforte radicale dove ha tenuto l'ultimo comizio, è arrivato al 74,14 % e in quella di Mendoza al 71%. Massa ha vinto solo a Formosa, Santiago del Estero e nella provincia di Buenos Aires, ma ha perso nelle storiche roccaforti di Tucumàn, Chaco e Santa Cruz. Per il Presidente hanno votato soprattutto le fasce medio-basse e i giovani, ma il consenso è complessivamente trasversale.

Molti opinionisti si sono chiesti come ha fatto Milei a stravincere, riuscendo a convincere l’elettorato che la sua ricetta alla soluzione dei problemi era migliore di tutti gli altri. La risposta non è così complicata come si può pensare: gli Argentini hanno detto basta a una monotonia politico-istituzionale che, a prescindere dal centrodestra o centrosinistra, ha sempre fallito, in primis dal punto di vista economico e sociale. Non avendo più nulla da perdere, hanno preferito sfidare ogni timore e perplessità per affidarsi al “nuovo”, convinti che il fondo sia stato toccato e che la situazione sia talmente grave che il Sistema non solo debba essere riformato, ma addirittura sradicato.

Ora, per il neoeletto Capo dello Stato, viene la parte più difficile: deve dimostrare di saper attuare le riforme con un Parlamento non propriamente schierato dalla sua parte e un’opposizione che non gli concederà alcuna attenuante.

Nessuno può immaginare come sarà la presidenza di Milei. È un personaggio troppo complesso per poter tentare delle previsioni certe. Ma alcune promesse sono già state mantenute: sono stati istituiti solo nove ministeri (anziché diciannove come nel precedente esecutivo) e si è deciso di svalutare del 50% il valore della moneta argentina contro il dollaro, riscontrando la reazione positiva del FMI. Il Presidente, inoltre, ha voluto sin da subito iniziare a tessere forti relazioni internazionali, decidendo di volare negli Stati Uniti e pranzare con Bill Clinton. Dai primi segnali sembra quindi intenzionato a fare sul serio. Da parte nostra non possiamo che augurargli di riuscire nei suoi propositi e inaugurare così un periodo di crescita, sviluppo e benessere.

L’Argentina ce la può fare, ne siamo sicuri. D’altronde, come diceva Borges, “l’Argentino è un Italiano che parla spagnolo”. E gli Italiani, si sa, sanno sempre rialzarsi.

Michele Gottardi

Classe 1995, maturità classica e laurea con lode in giurisprudenza all’Università di Trieste. Appassionato di storia, politica e religioni, amante del "bello" nelle sue forme più elevate e profonde.

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