Non può esserci gratuità se non a partire dal prossimo   

Come una cattedrale nel deserto travolta da venti irrefrenabili, il monumentale impero d’immagine della più nota influencer del Paese viene esposto ad una bufera che non accenna a stemperarsi.

Sono tre le vicende emerse che tengono banco e hanno coinvolto l’attività di Chiara Ferragni. A metà dicembre l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha inflitto una multa milionaria ad alcune società riconducibili alla regina dei social, motivazione: “le suddette società hanno fatto intendere ai consumatori che acquistando il pandoro “griffato” Ferragni avrebbero contribuito a una donazione all’Ospedale Regina Margherita di Torino. La donazione, di 50 mila euro, era stata invece già effettuata dalla sola Balocco mesi prima. Le società riconducibili a Chiara Ferragni hanno incassato dall’iniziativa oltre 1 milione di euro”. Il comportamento contestato, secondo l’autorità: “ha limitato considerevolmente la libertà di scelta dei consumatori facendo leva sulla loro sensibilità verso iniziative benefiche”, e violando “il dovere di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 20 del Codice del Consumo e integrando una pratica commerciale scorretta, connotata da elementi di ingannevolezza ai sensi degli articoli 21 e 22 del Codice del Consumo”. In sostanza: pubblicità ingannevole, volta a illudere i consumatori finali che il prezzo di 9 euro del pandoro Pink Christmas, rispetto ai 3.70 dello stesso prodotto non griffato, fosse giustificato dallo scopo benefico cui il delta di maggior guadagno sarebbe stato devoluto.

Il vaso di Pandora si apre, gli eventi deflagrano, Codacons e Assourt (l’Associazione utenti dei servizi radiotelevisivi) presentano esposto alla Procura di Milano, l’ipotesi è quella di truffa, la notizia di reato sul tavolo del Procuratore Viola viene iscritta, in un primo momento, a carico di ignoti.

Passano i giorni, Ferragni si scusa, mostra costernazione, invoca comprensione, ammette lo sbaglio, dona un milione di euro all’ospedale Regina Margherita di Torino e dichiara che è disposta a versare anche la differenza tra la sanzione comminata dall’AGCM qualora in Appello la stessa dovesse essere rivista. Il marito, corifeo della rivendicazione più sfrenata, vindice sincero e appassionato della Magna Charta libertatum del terzo millennio, riscopre e invoca anche lui il valore della sobrietà, chiede ai giornalisti di evitare il clamore, di concentrarsi sulle vere urgenze informative. D’un tratto l’esposizione d’immagine, le luci e i frastuoni della ribalta, l’eccentrico egocentrismo mediatico attraverso cui veicolare, dal palco del primo maggio o in prima serata a Sanremo, messaggi e atteggiamenti divisivi chiamando perfino in causa, senza contraddittorio, leader e partiti non graditi, diventano qualcosa di subdolo cui rifuggire, da scrollare di dosso come la polvere da un vecchio pullover.

La tempesta reputazionale però, non si placa, il caso del pandoro smuove le braci che covano sotto la cenere dell’ipocrisia. Ecco che saltano fuori nuovi dubbi su altre operazioni, le ombre della slealtà si ampliano intrecciandosi a composizione di un quadro sempre più spinoso. È il turno delle uova di Pasqua Dolci Preziosi, il Codacons apre un esposto all’AGCM con la motivazione di volere accertare una: “operazione commerciale della Ferragni mascherata da beneficenza, un vero e proprio inganno a danno degli acquirenti con l’aggravante di sfruttare i bambini affetti d’autismo. Una sponsorizzazione che, stando alle indiscrezioni emerse, avrebbe fruttato in due anni la stratosferica cifra di 1,2 milioni di euro all’influencer, a fronte di una donazione “elemosina” di appena 36mila euro in favore del progetto benefico I Bambini delle Fate, per giunta eseguita dalla società Dolci Preziosi e non dalla Ferragni, senza alcuna correlazione fra le vendite delle uova e l’entità della donazione”. Si ripresenta lo stesso, articolato, schema ingannatorio: fare credere ai consumatori che la maggiorazione nel prezzo del prodotto avrebbe sostenuto un’attività benefica, quando in realtà l’unica cosa da sostenere erano gli esorbitanti cachet per lo sfruttamento dell’immagine di Chiara Ferragni. Risalta poi all’attenzione della Procura di Milano anche un altro filone d’indagine: la bambola Trudi con le fattezze dell’influencer, una limited-edition venduta sull’e-commerce The blonde Salad, rinominata “Mascotte Chiara Ferragni” il cui ricavato, al netto delle spese di produzione e messa in commercio, avrebbe dovuto essere devoluto all’associazione Stomp out bullying, impegnata nella lotta al cyberbullismo, all’omofobia e alla discriminazione. La società di Ferragni si affretta, attraverso un comunicato stampa, a ricordare che “i ricavi derivanti dalle vendite di tale bambola avvenute tramite l’e-commerce The Blonde Salad, al netto delle commissioni di vendita pagate da Tbs al provider esterno che gestiva la piattaforma e-commerce, sono stati donati all’associazione Stomp Out Bullying nel luglio 2019”. A verifica delle dichiarazioni, il programma Zona Bianca ha contattato la CEO e fondatrice di Stomp out bullying che ha risposto di non sapere “chi sia questa donna (Chiara Ferragni, ndr) e di non aver ricevuto alcuna donazione”.

Precisazioni, smentite e pubbliche scuse a parte, ora la notizia di reato su cui indaga la procura ambrosiana non è più di frode in commercio, bensì di truffa aggravata; l’accusa del Procuratore aggiunto Fusco contesta in particolar modo l’aggravante della minorata difesa del consumatore, attraverso l’utilizzazione di un sistema informatico volto a favorirne la minore consapevolezza.

Come se non bastasse, l’indagine degli inquirenti coinvolge unitariamente tutte e le tre fattispecie citate secondo un disegno che, per la Procura, aderisce all’impostazione del reato continuato, abbracciandole in un unico disegno criminoso.  

Tratteggiati i passaggi fondamentali della vicenda, su cui solo la magistratura è chiamata a fare chiarezza, risulta opportuno indugiare su alcuni motivi di riflessione che involgono l’intreccio tra visibilità, gratuità e carità.

È fin troppo facile mettere in risalto le ipocrisie, le incongruenze, le contraddizioni che dispiegano con irruenza da questa vicenda, a suggerimento di come, entro le pieghe scintillanti di una modernità suadente, si racchiude in realtà la più antica e auto-conservativa di tutte le tentazioni: l’avidità.

Richiama la memoria l’inno che, con interpretazione ferocemente convincente, quella torbida figura di corporate raider roventemente americano, Gordon Gekko, declama trionfalmente nel Wall Street di Oliver Stone: “L'avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l'avidità è giusta, l'avidità funziona, l'avidità chiarifica, penetra e cattura l'essenza dello spirito evolutivo. L'avidità in tutte le sue forme: l'avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l'umanità”. L’avidità, come irrefrenabile tensione destinata a non placarsi neppure se soddisfatta, interpreta aderentemente il paradigma etico che vigorosamente innerva di sé molte delle traiettorie esistenziali dell’uomo d’oggi.

L’avidità come valore e slancio di una visione del mercato e degli scambi economici imbibita dalla mitologia individualista del capitalismo finanziario anglosassone a matrice protestante, distante da quell’autentica visione comunitaria e antropologicamente cattolica, che ha in uggia il narcisismo sociale e i suoi più diretti corollari della secolarizzazione spirituale e dello smarrimento identitario.

Avidità che, nel caso Ferragni, ingannevolmente fagocita ogni cosa, anche l’elemento oppositivo della gratuità, sulla spinta di un ebbro edonismo che implacabilmente spiana tutto ciò che si presenta a sua negazione: l’altruismo, la solidarietà, la gratuità.

L’avidità nega l’altruismo: non vi può essere sincero interesse al benessere degli altri, siano essi anche i deboli e i fragili, quando a prevalere è l’interesse esclusivo al proprio, di benessere.

Di conseguenza, l’avidità nega la solidarietà: non vi può essere compartecipazione al sentimento altrui se a mancare, in principio, è lo stesso sincero interesse alla situazione dell’altro, siano essi un singolo o una comunità.

Infine, se escludiamo l’interesse e la partecipazione ad altro che non sia il proprio diretto arricchimento ecco che, a maggior ragione, non vi può essere azione cui non corrisponda remunerazione, consista pure nello sfruttamento della propria immagine.

Ecco che, ai corifei dell’egoismo e del narcisismo sociale, preferiamo contrapporre il profilo antropologico della carità, da non intendersi quale declinazione inamidata e goffa del pauperismo socialista   o torbida versione di un frivolo qualunquismo volti a demonizzare la fortuna e a negare i valori del talento e dell’audacia. Crediamo soltanto che, nella società dell’immagine, non si possa fare a meno di preservare un’etica dell’azione, soprattutto di quella economica privata, ispirata ai temperamenti della sobrietà, della lealtà e dell’equità. Temperamenti condensati, a nostro modo di vedere, nella carità.

Scrive l’Apostolo Paolo: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor. 13, 4-7). Nelle parole di questo inno meraviglioso, la caritas latina è emanazione del concetto greco di agape, a sua volta distinto, seppure non contrapposto, dalle altre due forme di manifestazione dell’amore: l’eros e la philia.

Volendo coagulare in poche frasi le implicazioni di questo concetto e senza rimandare ad una prospettiva univocamente teologica, la carità di cui trattiamo in contrapposizione all’avidità, è un modo di amare il prossimo che valorizza soprattutto il desiderio sincero dell’altrui bene. Le azioni improntate alla carità, dunque, tendono ad interrogarsi, di volta in volta, su quale sia il bene per il prossimo e sull’implicazione che il proprio agire riversa su quello stesso bene. Non si tratta, necessariamente, di una prospettiva eroica improntata al rigetto di qualsiasi forma di remunerazione nello scambio. Si tratta, piuttosto, della capacità di contemperare il proprio bene, anche monetario, curandosi di come l’azione possa contribuire al bene dell’altro, sia esso un singolo o una comunità.

Ecco dunque che, la beneficenza efficace ed effettiva, non è quella che disdegna ogni forma di comunicazione o di esposizione mediatica: nulla osta a che un’immagine pubblica venga utilizzata a promozione di una partecipazione collettiva ad una causa, bensì, ciò che distingue le due opzioni (all’avidità, e alla carità), risiede nella sincera adesione ad un modo di essere, e dunque di agire, in cui il proprio io e ciò che lo circonda vengono interpretati come interrelati ad una comunità di riferimento, al cui interno ogni uomo è prezioso e meritevole di bene. Un impianto dogmatico, dunque, che richiede di de-modernizzare, in questo senso, e di ri-classicizzare il profilo antropologico della nostra società. 

 

Francesco Bertolin

Classe 1999, maturità classica, laureando in giurisprudenza presso la facoltà di Trento, coinvolto nel programma doppio titolo con l’Università di Glasgow, sta conseguendo un master in diritto societario e finanziario.

È co-fondatore e Segretario di Creature.

LinkedIn: Francesco Bertolin

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