La libertà è l’essenza dell’uomo. Ma l’uomo è ancora libero?
Sono trascorsi pochi anni dal suo inizio, eppure si ha tutta l’impressione che il XXI secolo non potrà essere considerato dagli storici come un arco di tempo qualsiasi. Al suo interno trovano spazio guerre, attentati terroristici, crisi economiche, emergenza pandemica, instabilità politica e…si spera possa bastare! Eppure sono in molti ad osservare come i tempi che ci sono stati dati da vivere siano contraddistinti dal trionfo (o dall’abuso) di un termine: diritto. Se in un giorno qualsiasi provassimo ad ascoltare un servizio giornalistico alla televisione o alla radio o a leggere un quotidiano, senza dubbio verremo travolti da questo termine: diritto. Diritto a possedere una casa, diritto ad un impiego certo, diritto ad amare chi si desidera, diritto ad avere figli, diritto a morire, diritto a scegliere se essere maschio o femmina e avanti di questo passo. C’è un’altra parola invece che sembra avere esaurito il suo fascino: libertà. L’apice del suo successo politico e sociale si ha forse con la Rivoluzione americana quando, nel 1765, le tredici colonie d’Oltreoceano si ribellarono alla monarchia inglese e rivendicarono l’indipendenza dalla madrepatria britannica. Il conflitto si concluse con la vittoria americana, sancita dalla Dichiarazione di Indipendenza del 1776, che mise nero su bianco tre parole fondamentali (vita, libertà, benessere) quali doni elargiti dal “Creatore” a tutti gli uomini. Prendendo spunto da tale evento e dalla non lontana Rivoluzione francese, migliaia di intellettuali vollero orientare la propria esistenza umana e professionale verso la difesa della libertà, quale bene assoluto, sacro e inviolabile.
In un primo momento questi due termini, diritto e libertà, potrebbero sembrarci identici, ma, in realtà, celano significati non sovrapponibili. Per comprenderne la differenza risulta utile appellarsi al diritto pubblico che, tradizionalmente, definisce ambedue come posizioni giuridiche soggettive, assegnando però al primo un aspetto positivo, di pretesa (diritto positivo), mentre al secondo un significato negativo, di non costrizione (libertà negativa). Di conseguenza si utilizza il termine “diritto” quando il soggetto è alla ricerca di un servizio, un favor, un riconoscimento da parte dell’autorità; nel momento in cui invece si ha la volontà di poter esprimere una propria convinzione o aspirazione al di là del placet dello Stato si manifesta una “libertà”.
Se volessimo approfondire questo ragionamento addentrandoci in quella che, nel nostro Paese, è la suprema fonte del diritto, ovvero la Costituzione, noteremo che la parola “diritto” risulta utilizzata cinquantacinque volte, mentre “libertà” tredici. La motivazione è principalmente politica: la Carta è stata il sunto della quasi totalità delle tradizioni ideologiche presenti nell’Assemblea costituente del 1946-1948: democristiana, socialcomunista e liberale. Le prime due, seppur con le differenze che conosciamo, erano di gran lunga maggioritarie e assai sensibili ai temi sociali legati alle fasce di popolazione medio-basse, la seconda era più elitaria e scettica verso qualsivoglia politica paternalistica.
Sin dalle origini, quindi, l’impostazione giuridica sulla quale è sorta la Repubblica ha voluto privilegiare i diritti rispetto alle libertà, i bisogni rispetto alle aspirazioni, il gruppo rispetto al singolo.
L’errore che non dobbiamo commettere è relegare siffatte osservazioni, ricavate dal pensiero liberale e soprattutto libertario, al mondo della dottrina giuridica, escludendo così una loro implicazione reale. Al contrario, è opinione di chi scrive ritenere come le conseguenze siano attualissime e, soprattutto, ben visibili! Soffermiamoci per un attimo su ciò che ontologicamente contraddistingue l’uomo rispetto agli altri esseri viventi: il pensiero, e, di conseguenza, la libertà di opinione. A proposito potrebbe esserci di ausilio una domanda: siamo liberi di pensare? Siamo (ancora) liberi di esprimere il nostro pensiero?
Guardando al contesto italiano ed europeo, dal punto di vista formale la Costituzione e, ancor di più, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sembrano suggerirci una risposta convintamente positiva. Il progresso tecnologico, in particolare l’invenzione di Internet con i suoi blog e social, hanno amplificato questa credenza, ma, ironia della sorte, sono stati i primi a smentirla. Il caso più eclatante, non tanto per il contenuto quanto per il destinatario dei provvedimenti, è stato la sospensione da tutti i social media dell’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nello specifico, in seguito all’assalto del Congresso del 6 gennaio 2021, senza alcun accertamento giudiziario sull’accaduto, tutte le maggiori piattaforme hanno intrapreso decisioni senza precedenti, sostenendo che Trump avesse violato le linee guida che vietavano, e vietano, di condividere contenuti che promuovono violenza e notizie false. Gli account Facebook e Instagram sono stati inizialmente bloccati per 24 ore, ma il blocco è poi stato prorogato a tempo indeterminato. La decisione è stata giustificata dallo stesso Mark Zuckerberg che ha definito l’uso dei social da parte di Trump un “rischio troppo grande”.
Anche i gestori di Twitter hanno adottato la sospensione dell’account, ma per 12 ore, chiedendo la rimozione di alcuni messaggi che (a loro parere) contenevano dichiarazioni false e incitavano alla violenza e precisando che ulteriori violazioni avrebbero potuto portare a un blocco definitivo, cosa che poi è avvenuta. Tali provvedimenti, ritirati dopo quasi due anni, hanno suscitato un acceso dibattito tra favorevoli e contrari, ma l’aspetto che più ha impressionato è che tra i primi ha trovato posto la quasi totalità dei politici, giornalisti e intellettuali liberal, solitamente tribuni dell’antifascismo e dei diritti civili, ahimè ben poco delle libertà. La decisione di impedire all’ex inquilino della Casa Bianca di esprimere la propria opinione risulta essere ancor più grave in un Paese dove la Costituzione, forse la più liberale al mondo, ospita la libertà di parola addirittura nel Primo emendamento! Persino una giornalista del New York Times (colonna dell’informazione progressista), Shira Ovide, ha dichiarato di sentirsi “a disagio al pensiero che [queste aziende] siano nella posizione di comportarsi come se fossero una Corte Suprema, in grado di decidere per miliardi di persone quali espressioni e comportamenti siano appropriati”.
Alcuni potrebbero obiettare che le piattaforme sopracitate sono private, quindi è legittimo che il proprietario decida chi ospitare e chi no. La questione, tuttavia, è ben altra in quanto questi colossi hanno assunto una rilevanza quantitativa e qualitativa tale da non poter essere considerati dei semplici network, in particolar modo quando ospitano account istituzionali o vengono utilizzate dalle pubbliche istituzioni. Un esempio? L’inchiesta del New York Post su alcuni contenuti compromettenti del pc di Hunter Biden (figlio dell’allora ancora candidato presidente), oscurati dai social per volontà dell’FBI, l’agenzia federale americana di intelligence e sicurezza interna. La notizia, rivelatasi autentica, venne inizialmente declassata a “sospetta propaganda russa” e relegata su Facebook nelle ultime posizioni, cosicché fossero in pochi rintracciarla. Twitter agì in modo ancor più brutale: non solo eliminò l’account del quotidiano, ma sospese tutti coloro che postarono la notizia.
La situazione è di gran lunga migliorata con l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, decisione salutata con disprezzo e preoccupazione (sic!) dallo stesso mondo progressista che aveva in precedenza sfruttato il social a proprio piacimento. L’amministratore delegato di Tesla, tra le numerose iniziative, ha permesso l’accesso ai dati interni di Twitter, rendendo pubblico, ad esempio, il Virality Project, un programma messo in piedi dalla Stanford University in collaborazione con una serie di agenzie governative allo scopo di segnalare la presenza di fake news nel social. In un primo momento l’iniziativa potrebbe sembrarci encomiabile: chi di noi sarebbe entusiasta di entrare in contatto con notizie false o infondate? Il problema però è più profondo, criptico: come Pilato, infatti, dobbiamo chiederci: Quid est veritas? O meglio, Quid est mendacium? Prima del Virality Project un post su Twitter era oggetto di censura nel momento in cui il contenuto era dimostrato falso. In seguito, invece, la nozione di "disinformazione" si è ampliata a dismisura: sono diventate fake news anche inserzioni fattualmente vere ma che possono generare incertezza tra i lettori, come posizioni contrarie al “passaporto vaccinale” o la teoria (ancor oggi mai smentita ufficialmente) che la vaccinazione anti-Covid19 non previene la trasmissione del virus. Ma ciò che fa più rabbrividire è la giustificazione data da uno dei partner del progetto: “Non possiamo avere fiducia nella capacità dei cittadini di avere dei giudizi per conto proprio. I cittadini devono invece essere protetti da verità che potrebbero minare la loro fiducia nell'autorità. E continuare a seminare dubbi ed incertezze rende incapace una società di capire cosa è vero e cosa no”. Morale: la Verità (con la “V” maiuscola) è ciò che decide lo Stato e nessuno deve osare metterla in discussione, men che meno il semplice cittadino. Insomma, una brutta copia dell’orwelliano Ministero della Verità in salsa americana.
Abbandoniamo a questo punto le vicende d’Oltreoceano, concentrandoci sul nostro Paese e sull’Europa, e chiediamoci: la situazione è diversa? Non direi. Di sicuro non lo è stata durante la fase pandemica, in particolar modo sull’uso di uno strumento stra-ordinario come il green pass, o sulla decisione della quasi totalità degli Stati europei, tra i quali l’Italia, di inviare armi all’Ucraina in risposta all’aggressione russa. Ma non lo è tutt’oggi di fronte al dibattito sul cambiamento climatico in ragion del quale, poche settimane fa, un noto esponente politico dei Verdi ha proposto il “reato di negazionismo climatico” per chiunque osi mettere in discussione la retorica catastrofista sul climate change.
Tuttavia, la limitazione della libertà di opinione non ha investito solo i temi ordinari dell’agenda politica e sociale, ma anche ciò che l’uomo ha di più profondo: la Fede. Di conseguenza: siamo ancora liberi di credere? Siamo ancora liberi di orientare il nostro pensiero in base a determinate credenze religiose o filosofiche ed esprimerlo pubblicamente? Da decenni nella società italiana e, ancor di più, occidentale si percepisce un clima di insofferenza, repellenza e censura verso chiunque osi manifestare il proprio credo cristiano, specialmente se, dall’alto della sua carica, ha la possibilità di influenzare l’opinione pubblica. Un evento a dir poco eclatante che, ahimè, pochi ricordano, è il diniego, nel 2004, del Parlamento europeo di Rocco Buttiglione quale Commissario europeo per la giustizia, libertà e sicurezza. Casus belli? Alcune sue dichiarazioni in merito ai diritti civili (tra le tante “come cattolico considero l’omosessualità un peccato, ma non un crimine” e “la parola «matrimonio» deriva dal latino «matrimonium» che significa «protezione della madre» e quindi la famiglia esiste per permettere alla donna di avere figli e di avere la protezione di un uomo che si prenda cura di loro”). L’allora deputato dell’UDC citò il filosofo Kant e la distinzione tra legge e morale in virtù della quale chiunque avrebbe potuto considerarlo un “peccatore”, e viceversa, purché tale giudizio etico non avesse conseguenze legali o discriminatorie. A nulla servirono le levate di scudi in sua difesa da parte dei colleghi del Partito Popolare Europeo dato che sia i socialisti sia i liberali (sic!) rigettarono la candidatura, costringendo il Governo italiano a ritirarla e proporre al suo posto Franco Frattini.
Situazione simile, ma con esito (fortunatamente) favorevole, è avvenuta pochi mesi fa in occasione dell’elezione a Presidente della Camera di Lorenzo Fontana, tacciato di essere indegno di una carica così prestigiosa in quanto “ultracattolico” e “omofobo”. Per non parlare della vera e propria censura ai danni Ministro della Famiglia Eugenia Roccella da parte di un gruppo di femministe durante la presentazione di un suo libro al Salone del Libro di Torino. Gli attivisti non solo hanno impedito all’esponente del Governo Meloni di tenere la propria conferenza, ma hanno ricevuto addirittura la solidarietà del centrosinistra.
Era opinione comune pensare che gli Stati europei e la stessa UE dovessero basarsi sulla laicità, ma notiamo che ciò non è stato perché quest’ultima è stata piano piano spodestata dal laicismo. La laicità infatti considera la religione separata dallo Stato, ma non vieta di diffonderla, sicché ciascun cittadino può professare e diffondere liberamente e, soprattutto, pubblicamente il proprio credo. Ma soprattutto il potere politico, in nome della laicità, non può e non deve rinnegare la propria Storia e le proprie origini poiché ciò che siamo è frutto di ciò che siamo stati. Lo sottolineò con la sua solita magistralità Benedetto XVI durante il convegno promosso dall’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani tenutosi il 9 Settembre 2006 a Roma. L’allora Pontefice affermava: “[La laicità] nei tempi moderni ha assunto [il compito] di esclusione della religione e dei suoi simboli dalla vita pubblica mediante il loro confinamento nell'ambito del privato e della coscienza individuale. È avvenuto così che al termine di laicità sia stata attribuita un’accezione ideologica opposta a quella che aveva all’origine. In realtà, oggi la laicità viene comunemente intesa come esclusione della religione dai vari ambiti della società e come suo confino nell’ambito della coscienza individuale. La laicità si esprimerebbe nella totale separazione tra lo Stato e la Chiesa, non avendo quest’ultima titolo alcuno ad intervenire su tematiche relative alla vita e al comportamento dei cittadini; la laicità comporterebbe addirittura l’esclusione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici destinati allo svolgimento delle funzioni proprie della comunità politica. In base a queste molteplici maniere di concepire la laicità si parla oggi di pensiero laico, di morale laica, di scienza laica, di politica laica. In effetti, alla base di tale concezione c'è una visione a-religiosa della vita, del pensiero e della morale: una visione, cioè, in cui non c'è posto per Dio, per un Mistero che trascenda la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto, vigente in ogni tempo e in ogni situazione. Soltanto se ci si rende conto di ciò, sì può misurare il peso dei problemi sottesi a un termine come laicità, che sembra essere diventato quasi l’emblema qualificante della post-modernità, in particolare della moderna democrazia”.
Sono parole chiare e inequivocabili che lanciavano un allarme assordante, rivelatosi invece totalmente inascoltato. Benedetto XVI parlava di una fede che il mondo “laico” pretendeva dover essere vissuta “nell’ambito del privato e della coscienza individuale”. Ahinoi la situazione non è più così. Oramai non solo non si possono esternare opinioni o gesti contrari ai nuovi canoni, ma è severamente proibito anche pensare diversamente da essi. La censura non si limita, quindi, al foro esterno, ma viene estesa anche a quello interno.
Nel frattempo vengono dichiarati “legittimi” gesti pubblici offensivi verso la religione e i luoghi di culto. Uno degli ultimi casi risale al 2013 quando Eloise Bouton, cittadina francese appartenente all’associazione femminista Femen, indossando un velo azzurro e una sorta di corona di spine, entrò nella chiesa della Medeleine a Parigi e si diresse verso il tabernacolo, mimò un aborto con la deposizione di alcuni pezzi di carne di vitello e urinò sull’altare. Sulla schiena aveva la scritta “Il Natale è cancellato”, mentre sul petto portava un’iscrizione riferita al manifesto delle “343 puttane”, le donne che nel 1971 avevano chiesto la legalizzazione dell’aborto. All’orripilante scena erano presenti il coro che stava svolgendo delle prove musicali e una decina di giornalisti, preventivamente avvertiti dall’attivista. Di fronte ad un gesto così eclatante, il parroco decise di intentare una causa giudiziaria che portò la donna ad essere condannata a un mese di carcere e al pagamento alla parrocchia di 3.500 euro. La sentenza fu confermata in secondo e terzo grado, senonché la parte soccombente decise di ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 2022, ha ribaltato le precedenti decisioni. Per la CEDU l’unico obiettivo della donna era quello di contribuire “al dibattito pubblico sui diritti delle donne, in particolare sul diritto all’aborto” e i giudici francesi avevano emesso delle pene sproporzionate in quanto “l’ingerenza con la libertà di espressione del denunciante, sotto forma di pena detentiva, non era necessaria in una democrazia”, violando così l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela la libertà di espressione. I giudici hanno quindi deciso, all’unanimità, di condannare lo Stato francese al risarcimento nei confronti della donna.
Sorge una domanda: la posizione della CEDU in tema di libertà di pensiero è sempre stata coerente? La libertà di parola è rigorosamente sempre prevalsa su quella religiosa? Non possiamo che rispondere negativamente. Risale al 2018 la decisione della Corte europea di confermare la condanna di un oratore austriaco accusato di aver equiparato il rapporto sessuale di Maometto con Aïcha, allora di soli 9 anni, a pedofilia. La CEDU aveva sentenziato come l’imputato non avesse avuto l’intenzione di informare obiettivamente il pubblico, bensì di “dimostrare che Maometto non è degno di essere venerato”. Inoltre l’utilizzo del termine “pedofilo” poteva essere giudicato come una “dolosa violazione dello spirito di tolleranza alla base della società suscitando pregiudizio e mettendo in pericolo la pace religiosa”.
È ormai consolidata l’opinione che l’atteggiamento dei tribunali non sia uguale per tutte le professioni religiose. La giurisprudenza europea e nazionale utilizza infatti un doppio binario di giudizio, il primo sempre più stringente verso il Cristianesimo, il secondo sempre più tollerante verso le altre religioni.
Su questo fronte segnali di speranza giungono dagli Stati Uniti dove la libertà religiosa è storicamente e culturalmente molto sentita tanto da essere inserita nel Primo emendamento della Costituzione americana: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge che stabilisca una religione di Stato o che proibisca il libero esercizio di una religione”. Il fatto che libertà di religione sia posta addirittura nel primo comma, la libertà di parola al secondo e al terzo quella di riunione sta a significare che le ultime due sono logiche conseguenze della prima: la libertà religiosa non è solo libertà di credere, ma contemporaneamente anche libertà di esprimere pubblicamente la propria fede e, quindi, di riunirsi per professarla.
La centralità del tema è tale che anche il Congresso è intervenuto approvando, nel 1998, l’International Religious Freedom Act, sancendo che la protezione e la promozione della libertà religiosa erano parte integrante della politica estera statunitense, dando vita alla Commission on International Religious Freedom, commissione indipendente atta a monitorare lo stato della libertà religiosa nel mondo.
Anche negli Stati Uniti, tuttavia, il limite tra libertà religiosa e laicità dello Stato è stato fonte di dibattito. Da sempre il caso per eccellenza è la libertà di pregare a scuola, questione che in Europa avrebbe sicuramente un esito giurisprudenziale negativo. La causa più recente giunta di fronte alla Corte Suprema, la più alta magistratura statunitense che, per l’importanza assolutamente apicale, discute poche centinaia di cause all’anno, riguardava un allenatore di football, nonché veterano dei Marines, Joseph Kennedy, che, dopo aver organizzato una preghiera pubblica sul campo al termine di una partita, era stato licenziato dalla Bremerton High School. Il tutto era iniziato 2008 quando Kennedy aveva iniziato a pregare da solo sul campo da gioco, proferendo le seguenti parole: “Mi inginocchio e ringrazio Dio per aver permesso ai ragazzi di giocare e a me di allenare”. Dopo qualche mese alcuni dei suoi giocatori avevano chiesto a Kennedy di poter partecipare alla preghiera che, da individuale, era diventata comunitaria. L’appuntamento era ormai diventato consuetudinario fino a quando, nel 2015, un allenatore rivale si era lamentato con il preside della scuola perché Kennedy aveva invitato i giocatori avversari a unirsi alla preghiera. Dopo avergli chiesto invano di interrompere le preghiere, la Bremerton High School ha deciso di non affidare più al coach la panchina per la stagione successiva. Kennedy, ritenendo violato il proprio libero esercizio della religione e, quindi, la propria libertà di espressione, aveva allora deciso di agire per via giudiziaria. Inizialmente la Corte d’Appello di Washington si era schierata con il preside della struttura scolastica, ma l’allenatore, non dandosi per vinto, aveva deciso di ricorrere alla Corte Suprema che, con 6 voti contro 3, ha ribaltato la precedente sentenza. La decisione, redatta dal giudice Neil Gorsuch, sancisce che la libertà di pregare è protetta dal Primo emendamento, dichiarando che “la Costituzione e il meglio delle nostre tradizioni consigliano il rispetto e la tolleranza reciproci, non la censura e la repressione, sia per le opinioni religiose che non religiose. […] Il rispetto per le espressioni religiose è indispensabile per la vita in una Repubblica libera e diversificata, sia che tali espressioni avvengano in un santuario o su un campo e sia che si manifestino attraverso la parola o a capo chino”. La Corte ha voluto anche sottolineare come il coach abbia pregato durante un periodo in cui i dipendenti della scuola “erano liberi di parlare con un amico, chiamare per prenotare un ristorante, controllare la posta elettronica o occuparsi di altre questioni personali” e “mentre i suoi studenti erano altrimenti occupati”. Di diverso avviso è stata la minoranza dei giudici, convinti che la Costituzione non autorizzi le scuole pubbliche a dover accettare comportamenti come quello tenuto da Kennedy che altro non fanno se non creare disservizi e divisioni.
Ma se la libertà religiosa, secondo la Corte suprema, deve essere garantita alla singola persona sia negli spazi privati sia in quelli pubblici, altrettanto vale per i gruppi? Oppure il poter esprimere la propria fede collettivamente può subire eccezioni? È quanto è avvenuto in Europa durante i vari lockdown che hanno contraddistinto la pandemia: i singoli Stati europei hanno imposto rigidissime restrizioni, imponendo ai cittadini di non lasciare le proprie abitazioni se non per approvvigionarsi. In Italia la misura massima intrapresa in tema di libertà di culto è stata quella di non chiudere i luoghi di culto per la preghiera personale, ma vietare le funzioni. In altre regioni e nazioni europee le decisioni sono state ben più forti: la chiusura delle chiese è stata imposta in Scozia, Galles, Francia, Belgio, Svizzera. Anche negli USA i singoli Stati, in nome dell’emergenza pandemica, hanno limitato l’accesso ai luoghi di culto con misure più o meno stringenti, suscitando le proteste dei vari gruppi religiosi e dello stesso Presidente Trump, che aveva invitato i governatori, soprattutto democratici, a rendere più blande le misure. L’invito non era stato accolto tanto da scatenare delle vere e proprie battaglie giudiziarie tra chi riteneva la libertà di culto non assoggettabile a limitazioni e chi sosteneva la necessità di adottare misure straordinarie anche in tema di partecipazione religiosa. Nello Stato di New York, roccaforte democratica, il governatore Andrew Cuomo aveva stabilito che, nelle zone rosse, potevano essere celebrate funzioni religiose fino a un massimo di 10 fedeli a prescindere dalle dimensioni del luogo. Nelle zone arancioni, invece, il limite era stato fissato a 25. Avverso il provvedimento, considerato lesivo della libertà religiosa e irrazionale vista l’assenza di restrizioni nei confronti di attività non essenziali, la Diocesi di Brooklyn e un’organizzazione ebraica ortodossa avevano avanzato ricorso. Il 27 novembre 2020, la Corte Suprema, con 5 voti favorevoli contro 4 contrari, ha deciso di accoglierlo ritenendo che le misure statali avrebbero riservato un trattamento eccessivamente severo verso i luoghi di culto e avrebbero “indubbiamente” provocato un “danno irreparabile alle libertà sancite dal I Emendamento, per periodi anche minimi di tempo”. Inoltre, i giudici, hanno voluto sottolineare un principio cardine, da tener presente non solo in ambito religioso: “anche durante una pandemia, non è ravvisabile mettere da parte la Costituzione, dimenticandola”.
È interessante notare come, mentre alcuni decenni fa l’opinione pubblica considerava l’America una nazione “all’avanguardia” e “progressista” e l’Europa un continente più “arretrato” e “conservatore”, la situazione oggi si sia ribaltata. Questo però cambia a seconda degli Stati che compongono la federazione americana: nella democratica California i provvedimenti di diritto sostanziale e giurisprudenziale sono agli antipodi rispetto a quelli adottati nella repubblicana Florida. Ma lo spostamento a destra della Corte Suprema, grazie soprattutto alle nomine effettuate durante la presidenza Trump, ha consentito di frenare le mosse dell’ideologia liberal ed interpretare in maniera estensiva le libertà fondamentali.
Nel resto dell’Occidente la situazione è ben diversa a causa soprattutto del clima culturale in cui spesse volte si è costretti a crescere. Si pensi a quanto sta accadendo nel Regno Unito, patria della Magna Charta e del Bill of Rights. È recente l’indagine del The Times relativa a un centinaio di università britanniche che hanno depennato dai corsi di letteratura autori come Shakespeare, Dickens, Christie per “proteggere il benessere degli studenti”. Il motivo? Politicamente scorretti.
O ancora i roghi dei libri J. K. Rowling, autrice di Harry Potter, tacciata di transfobia e vittima di ripetuti attacchi e atti intimidatori.
Pensavamo che, almeno in Occidente, con la fine delle grandi dittature del secolo scorso, le democrazie potessero consolidarsi sempre più e nessun argomento, anche se sgradito al Potere, potesse più essere un tabù. Speravamo che tutte le opinioni, i pensieri e gli orientamenti di carattere politico, religioso e filosofico superassero ogni forma di incomunicabilità. Ahinoi sta avvenendo tutto il contrario: una sorta di “vigilanza democratica”, per dirla alla Marcello Veneziani, intrisa di scientismo, perbenismo, laicismo, globalismo.
La migliore risposta? Non tacere, alzare sempre di più la voce e, per fare questo, non avere paura. Sì perché, come ci avverte Seneca, il potere dell’uno sta nella paura dell’altro.
E, attenzione, non cadiamo in un ulteriore errore sovente commesso dalla giurisprudenza, anche costituzionale: il bilanciamento. I diritti (positivi) possono essere bilanciati, le libertà mai.