Universa Universis: la Padova di Donatello.

Una città all’avanguardia, snodo cruciale dal punto di vista culturale. Un soggiorno imprescindibile per chiunque voglia essere al passo con i tempi e per chi desideri liberarsi da un gusto antico e stantio per cercare nuovi approcci all’arte. Un luogo vivace e in fermento costante in cui poter perseguire il cammino dell’innovazione. Si avverte nitida la coscienza collettiva di una trasformazione in atto e l’esigenza condivisa e impellente di imparare e assimilare il più possibile. Una fucina di idee, luogo di raccordo per giovani talenti in cerca di fortuna e fiduciosi nel futuro. Sembrerebbe la narrazione di una città moderna e in pieno sviluppo. Potrebbe essere la descrizione di un qualsiasi centro universitario dei nostri giorni o, addirittura, potrebbe trattarsi di una città di respiro internazionale: Milano, Londra, Parigi e magari anche New York. E, invece, si sta parlando della Padova della metà del ‘400: la Padova di Donatello.

Donato di Niccolò di Betto Bardi, in arte Donatello, (1386-1466) si trasferisce a Padova tra il 1443 e il 1444 e vi rimane stabilmente per un decennio. Non siamo a conoscenza del motivo esatto che spinse Donatello, originario di Firenze, a trasferirsi nella città patavina, anche se è molto probabile che, giunto a Padova provvisoriamente per una commissione artistica di prestigio, come potrebbe essere quella del Gattamelata, l’artista abbia poi stabilito di rimanervi fissamente. Le opere patavine di Donatello sono numerose e molto celebri: il Crocifisso monumentale fuso in bronzo per la Basilica del Santo, le sculture bronzee che si collocano presso l’altare maggiore della stessa chiesa e, ovviamente, l’immancabile statua equestre del Gattamelata, situata nella piazza del Santo e simbolo indiscusso della città.

Il vero lascito di Donatello però risiede in tutte quelle realizzazioni artistiche, coeve o leggermente successive al suo soggiorno a Padova, che non sono direttamente imputabili a lui ma che sono l’esito inequivocabile della sua più che prodigiosa influenza. Affrontare il soggiorno padovano di Donatello stilando un elenco delle sue, seppur grandiose, opere sarebbe riduttivo e non renderebbe l’idea di quanto sia stato essenziale per la nascita e la diffusione del pensiero rinascimentale nel Veneto e, più in generale, in tutta l’Italia settentrionale del versante adriatico.

Il Rinascimento non è solo la riscoperta dell’antico, per cui Padova era già culturalmente pronta grazie alle proprie origine classiche e alla presenza feconda dello Studio universitario, ma è la rinascita dell’uomo in quanto individuo pensante attraversato da emozioni.

L’ Altare del Santo, che abbiamo citato poc’anzi come uno dei lasciti più celebri del Donatello padovano, per come lo vediamo oggi non ci consente di comprendere appieno il rinnovamento promosso da Donatello e la sua grandezza senza tempo. L’allestimento odierno, infatti, risale alla fine dell’800 ed è frutto della reinterpretazione fantasiosa di Camillo Boito. L’assetto dell’altare maggiore all’epoca di Donatello corrispondeva ad un tempietto isolato a giorno, una scenografia teatrale in cui le sculture bronzee abitavano. 

Altare del Santo secondo la ricostruzione di Camillo Boito

La Vergine con il bambino e i Santi che oggi l’affiancano, schierati su due file, occupavano fisicamente uno spazio reale e coerente, istaurando un dialogo con la chiesa e con tutti i fedeli. A noi oggi può apparire come una scelta ordinaria e scontata ma per l’epoca era una rivoluzione: conferire concretezza spaziale alle figure e soprattutto consentire al pubblico di entrare a diretto contatto con l’opera tramite un allestimento tridimensionale. Donatello adopera la grande innovazione artistica del Rinascimento, la prospettiva, anche in scultura e in un luogo sacro e nevralgico come la Basilica del Santo, proprio davanti agli occhi di tutti.

La Pala di San Zeno di Andrea Mantegna, collocata presso l’altare maggiore dell’omonima chiesa a Verona, raffigura una Sacra Conversazione in cui la Vergine con il bambino è collocata al centro di due gruppi di santi. Quest’ultimi, la cui gestualità colloquiale consente quasi di sentirne il vociare, abitano fisicamente e coerentemente lo spazio in cui sono inseriti che, ancora una volta, è uno spazio prospettico.

Pala di San Zeno di Andrea Mantegna

L’opera di Andrea Mantegna, datata tra il 1456 e il 1459, è la prima pala d’altare pienamente rinascimentale dipinta nell’Italia settentrionale e sarebbe stata impensabile senza il precedente esempio dell’Altare del Santo di Donatello. Non è un caso, infatti, che il giovane Andrea Mantegna si sia formato a Padova negli stessi anni in cui nella città era attivo Donatello. Esattamente come non è una scelta fortuita che la Pala di San Zeno sia posizionata proprio sopra l’altare maggiore della chiesa omonima, in una riproduzione dell’Altare del Santo che ne riprende gli intenti così come la collocazione. La Pala di San Zeno ci permette quindi di immaginare come dovesse essere l’allestimento originario donatelliano dell’altare maggiore del Santo quasi come ne fosse una riproduzione fotografica ante litteram.

Andrea Mantegna però non è l’unico grande artista dell’Italia settentrionale che abbia conosciuto e assimilato le splendide innovazioni donatelliane. Quando si parla di area veneta, è impossibile non citare Giovanni Bellini (1435 c.-1516) e in particolare una delle sue iconografie più ricorrenti: l’Imago Pietatis. L’artista, infatti, si soffermerà su questo tipo di rappresentazione ben sette volte nel corso della propria carriera. Pensiamo alla Pietà Correr, datata 1465 circa e oggi conservata presso il Museo Correr di Venezia: un Cristo franante e dal livore già cinereo, regale nonostante la morte, si erge in primo piano sopra il proprio sepolcro.

Pietà Correr di Giovanni Bellini

L’immagine è sacrale ma non austera. Si tratta della raffigurazione di un uomo, consunto e smagrito dalle pene, che si mostra in tutta la propria sofferenza. Il capo reclinato esibisce un volto scarno ma ormai sereno mentre il corpo mostra ben visibili i segni del martirio. Le braccia e le mani penzolanti sono il simbolo della morte e dell’abbandono e i due angeli al suo fianco sembrano accarezzarlo più che sostenerlo. Egli, infatti, appare appeso ad un filo invisibile, quasi fosse una marionetta. C’è una forza che inspiegabilmente gli consente di sollevarsi sopra al proprio sepolcro e che forse costituisce l’elemento più divino dell’intera opera.

C’è un rilievo, collocato proprio al centro della predella dell’Altare del Santo, che può sfuggire all’attenzione dei meno attenti ma che costituisce uno dei massimi capolavori di Donatello, senza il quale non sarebbe stata possibile una congiunzione così elevata di umano e divino, quale quella raggiunta da Bellini nella Pietà Correr.

Imago Pietatis di Donatello, Altare del Santo

Il Cristo di Donatello è forse ancora più drammatico di quello belliniano. Il corpo privo di energie, fugate da una morte dolorosa, è anche in questo caso affiancato da due angeli. Quest’ultimi mostrano tutto il proprio dolore attraverso volti teatralmente sfigurati dalla sofferenza, come maschere della tragedia greca. Il sudario che incornicia l’immagine e ne costituisce lo sfondo è il sipario che svela la scena al pubblico dei fedeli. Una rappresentazione della morte drammatica ma al contempo naturale e profondamente diretta. Un’opera eloquente che si sofferma sull’umanità del Cristo, in grado di suscitare emozioni in noi ma anche nei contemporanei di Donatello che, infatti, risponderanno con un numero ingente di riproduzioni del tema più o meno pregevoli ma sempre fortemente ispirate a quel brano di umanità senza tempo che è il rilievo donatelliano.

Mantegna e Bellini, che ho scelto di citare in quanto a loro volta modelli indiscussi per le generazioni successive, sono solo due degli innumerevoli esempi di artisti in cui cogliere con evidenza assoluta l’influenza donatelliana.

Ciò che conta, è che Donatello sia stato tra i primi a saper vedere e rappresentare l’individuo in qualità di essere umano, conferendogli naturalezza espressiva e collocazione fisica in uno spazio che consente a chiunque di immaginarvisi dentro. La rivoluzione donatelliana è stata compresa, introiettata e diffusa in tutta l’Italia settentrionale proprio grazie alla riproduzione in immagini delle sue stesse invenzioni, contributo che infatti abbiamo riconosciuto sia in Mantegna che in Bellini.

In tutto questo e prima di tutto questo, la Padova del ‘400 assurge a luogo cruciale e acquisisce un ruolo da protagonista in quella riscoperta dell’umanità di sé stessa che altro non è che il Rinascimento.

Clara Bazzani

Nata nel 2000, diploma di maturità classica al liceo Dante Alighieri di Ravenna nel 2019. Laureata in triennale in lettere, curriculum classico, all'Università di Bologna. Attualmente frequenta l’ultimo anno di magistrale in arti visive presso la medesima Università.

Indietro
Indietro

Venezia, l’anadiomene

Avanti
Avanti

Lo sguardo del mare