Venezia, l’anadiomene

Molto si può scrivere su Venezia, correndo il rischio – che spesso di concretizza – di scadere nel banale: Venezia regina dei mari, Venezia la Serenissima, Venezia la Dominante.

Un aggettivo, a mio avviso, si addice molto meglio alla nostra città, rispetto a quelli già citati e a molti altri; ed è un aggettivo attribuitole dal Vate, D’Annunzio. Nel suo romanzo, Il Fuoco, D’Annunzio si riferisce a Venezia come «anadiomene». Scomodando la Treccani, viene data una definizione di anadiomene che bene centra il punto: derivato dal greco antico, questo aggettivo è «l’epiteto dato dai Greci ad Afrodite, con allusione alla nascita della dea dalle onde del mare». Il Vate non poteva trarre dall’antichità aggettivo migliore per la nostra città, che è sempre stata visceralmente legata al mare – più in particolare, alla laguna – ma non perché affacciata su di essa, bensì perché sorta su di essa, delle acque porzione inscindibile.

Le repubbliche marinare, che pure dovettero al mare nostrum la propria fortuna, non condividono con Venezia la medesima genesi, una interdipendenza che risale ai suoi albori per i più sconosciuti, persi sul fondale della sua storia ormai entrata nella seconda metà del secondo millennio.

In uno dei primi veri banchi di prova militari della Serenissima, fu proprio la laguna l’alleata fondamentale che consentì la resistenza dei veneziani contro una forza di gran lunga superiore alla loro. Il riferimento è ai primi anni dell’800 – non 1800! – quando il Re franco d’Italia, Pipino I, scese fino alla laguna e cinse d’assedio l’anadiomene. In quel contesto, ovviamente, tacendo delle minuzie di carattere militare, le forze erano sproporzionate e, Venezia, poteva contare solamente sul proprio grande e storico alleato, l’Impero Romano d’Oriente che, in ogni caso, si trovava ad una distanza non indifferente considerando i mezzi dell’epoca.

La richiesta di aiuto dei veneziani non si fece attendere, ma la città sarebbe dovuta, con ogni mezzo, resistere fino all’arrivo dei rinforzi. A permettere la resistenza dei veneziani non fu solo l’abilità militare – fattore ovviamente concorrente – ma piuttosto l’impenetrabilità della laguna; che, appunto, diede modo, pur concedendo terreno e con perdite ingenti, di non piegarsi del tutto alle forze franche che pur presero il controllo di buona parte degli insediamenti. Risultò, quindi, determinante l’ambiente lagunare nella strenua resistenza ad un nemico in netta superiorità, sia in termini di mezzi sia di uomini.

Alla luce di ciò, come si può considerare la laguna un semplice ambiente naturale sul quale la città sorse, molti anni orsono? Per conto mio, questo non è possibile.

La laguna è parte di Venezia, Venezia è parte della laguna. Dal lato continentale, insomma, Venezia era protetta dalla sua stessa natura, la stessa che non rese mai necessarie delle mura.

Con le spalle coperte, i veneziani presto si accorsero di avere delle potenzialità pressocché illimitate volgendo lo sguardo ad Oriente; iniziarono molto presto ad andare per mare, commerciando. Il simbolo per eccellenza di Venezia viene proprio dal mare, da un’impresa di due mercanti veneziani, Bono e Rustico che, con un ingegnosissimo stratagemma su cui non si può ora indugiare, riuscirono a «contrabbandare» le spoglie di San Marco da Alessandria d’Egitto, all’epoca in mano araba, fino a Venezia. Le sorti dell’anadiomene, dunque, sempre di più dall’anno mille, si legarono indissolubilmente non solo alla laguna – che, come si è detto, è da ritenersi alla stregua di una componente della città stessa – ma in particolare a quel mediterraneo orientale che, nel tempo, riversò ricchezze ingentissime nei forzieri della Serenissima. A dimostrazione ulteriore di questo legame, giova richiamare una tradizione antichissima che tutt’ora si svolge nel giorno della Festa dell’Ascensione (Festa dea Sensa, in lingua): lo sposalizio con il mare. Istituita per celebrare una vittoria in Dalmazia riportata dal Doge Pietro II Orseolo contro alcune popolazioni slave, durante questa solenne festività, a quaranta giorni da Pasqua, era usanza per il doge gettare in mare un anello, benedetto dal patriarca di Venezia, recitando le parole «Desponsamus te, mare. In signum veri perpetuique dominii.»

Come un matrimonio il rapporto tra il Venezia e quello stesso mediterraneo che, in effetti, nella storia della Repubblica ha segnato la sua ascesa e il suo declino. A conclusione di queste riflessioni e come ultima, definitiva, prova a sostegno di un legame più che utilitario, viscerale, con la laguna e il mare nostro, bisogna spostare i riflettori sulla fine della Serenissima, preceduta da un suo lento sgretolarsi in termini di influenza geopolitica. Ebbene, quando il mare nostrum perse la centralità economica che lo avevano caratterizzato da migliaia di anni, Venezia con esso perse la sua centralità non solo economica, ma anche politica, gradualmente; ma non senza lottare. Il canto del cigno, per così dire, avvenne, ovviamente, per mare: la battaglia di Lepanto. Questo il lascito di una Repubblica che lottava per mantenersi a galla: un’epica lotta contro un mondo orientale, islamico, con cui non si poteva più, come un tempo, costruire una relazione sana e duratura ma che si era costretti, invece, a respingere. L’ultima grande impresa di Venezia, prima del suo graduale tramonto: per mare, come nacque, diede la sua ultima splendida manifestazione di grandezza, assicurando all’Occidente cristiano la prosecuzione contro chi minacciava di imporsi economicamente ma, soprattutto, sul piano culturale e religioso.

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Universa Universis: la Padova di Donatello.