Recensione a “La lunga notte. La caduta del Duce”

È teoria diffusa nel mondo dell’editoria e dello spettacolo che il Duce venda copie: in qualsiasi libreria o edicola si incappa in un libro sul fascismo, sulla biografia di Benito Mussolini e dei suoi fedelissimi o sul ruolo del regime fascista nella tragedia della Seconda guerra mondiale.

“La lunga notte. La caduta del Duce” è una miniserie Rai (ideata da Franco Bernini con la regia di Giacomo Campiotti) andata in onda sul piccolo schermo al finire di gennaio e che ha suscitato critiche sotto il profilo tecnico, contenutistico e ideologico.

Non si è compreso che, più banalmente, la Rai ha intuito le potenzialità di una storia fatta di personaggi forti, soli al comando, vittime di una congiura e che hanno attorno uno sfondo composto da dinamiche familiari complesse e storie d’amore travagliate. Sofocle con Creonte, Shakespeare con Macbeth, Alfieri con Saul: sono solo alcuni esempi celebri a dimostrazione che creare un capolavoro artistico-letterario con questi ingredienti prescinde dall’empatizzare con un certo pensiero politico e con una determinata realtà storica.

Diranno alcuni e non a torto, date le premesse, che il canovaccio può essere stantio e perdipiù provinciale, avendo ripiegato sulla storia di casa nostra.

Si tratta, tuttavia, di quanto il pubblico delle serie italiane si aspetta e lo share televisivo durante le tre giornate lo ha dimostrato pienamente.

La trama è trattata con un intreccio che prevede un flashback ampio, volto a ricostruire come si arrivi al drammatico momento in cui Mussolini riconvoca il Gran consiglio del fascismo, l’organo previsto dallo stesso dittatore come “camera di compensazione” e che arriva a sfiduciarlo ponendo fine alla disastrosa gestione della guerra da parte del Duce e all’esperienza fascista propriamente detta. Il protagonista, tuttavia, non è Mussolini bensì una figura sconosciuta ai più, il presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, Dino Grandi. All’ombra dei grandi eventi storici, si stagliano le vicende familiari e amorose del Duce, della figlia Edda e dei Grandi, con la nipote di Dino che si innamora di un giovane militare idealista, ça va sans dire, di simpatie democratiche e antifasciste.

Com’era prevedibile, la tematica trattata, ovvero la caduta del fascismo con l’ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943, ha suscitato infinite polemiche.

Da mesi, infatti, si sostiene che il governo Meloni cerchi di influenzare la televisione pubblica tramite conduttori, programmi e serie graditi alla maggioranza.

La fiction sulla caduta del Duce, quella su Mameli e quella che sarà trasmessa su Gabriele D’Annunzio sarebbero, secondo i detrattori della premier, operazioni propagandistiche per diffondere una cultura politica conservatrice, volta a minare l’indipendenza della Rai in una cornice di sgarbi istituzionali al servizio pubblico. Si è evidenziato a sostegno di questa tesi che la serie sarebbe stata programmata all’indomani della vittoria elettorale del centrodestra.

Chi, tuttavia, ha avuto la bontà di guardare la serie con obiettività si è accorto di ben altro rispetto a queste sterili e non nuove polemiche circa la radiotelevisione italiana.

Al telespettatore medio, infatti, non sfugge la vena tendente al femminismo che è insita nella narrazione: l’intera casa Savoia viene presentata come inetta e inadeguata, totalmente appiattita sull’attendismo, eccezion fatta per la principessa del Piemonte Maria José, il cui ruolo nella congiura anti-mussoliniana trova ampio spazio, sicuramente eccessivo sotto un profilo storico, dato che, al contrario, quasi si tace il contributo attivo dei vertici del Regio Esercito, del mondo industriale e del Vaticano nel deporre Benito Mussolini. Il ruolo del sovrano nella decisione di rimuovere il Duce è addirittura rimpicciolito per far posto alla nuora di Vittorio Emanuele, se, com’è nella finzione filmica, il maggior consigliere della corona, cioè il ministro della Real Casa (l’antenato del Segretario generale del Quirinale) sembra opporsi alla congiura che Maria José sta ordendo. La moglie di Umberto appare addirittura come colei che attiva l’intervento della Santa Sede, mentre è noto che, durante tutto il ventennio, la Chiesa cattolica aveva preparato una nuova classe dirigente alternativa a quella fascista attraverso le sue associazioni giovanili e il sostituto della Segreteria di Stato Mons. Montini aveva avuto rapporti diretti col gerarca “congiurato” De Stefani e probabilmente anche con Federzoni e Grandi stesso al fine di garantire una svolta nel quadro politico italiano. Nondimeno, il personaggio della “regina di Maggio” risulta essere più profondo e sviluppato anche nelle sue contraddizioni: Grandi, infatti, le rinfaccia di essere stata l’unica della famiglia reale a essersi iscritta sua sponte al partito, lasciando intendere che solo il suo sentimento antitedesco le aveva fatto cambiare inclinazione politica (il Führer aveva invaso il suo regno natio, il Belgio).

Ancora, la critica progressista ha visto nello sceneggiato televisivo un certo ammiccamento per il regime e un tentativo revisionista nel tratteggio della figura di Dino Grandi.

In realtà, il regista non scivola mai nell’esaltazione di Dino Grandi, magistralmente interpretato da Alessio Boni (tra l’altro, come si può desumere dalle sue interviste, ben lontano come inclinazione personale al pensiero di destra). Il profilo del personaggio è invece presentato nella sua realtà storica di luci e ombre: Grandi è il volto istituzionale del fascismo, che incede con gravità nei corridoi di Montecitorio attorniato da clientes e peones guardati dall’alto in basso senza scomporsi e, benché ci sia presentato come il principale artefice della caduta di Mussolini, non si delineano per lui i tratti dell’eroe. A più riprese, infatti, i personaggi principali della serie denunciano il suo passato squadrista e violento, sul quale il potente gerarca è riuscito abilmente a gettare una patina di rispettabilità e istituzionalità anche a livello internazionale (come accaduto storicamente, del resto). Nei dialoghi con la moglie si fa intendere chiaramente la sua brama di potere ed è il Duce stesso a sottolineare le malversazioni compiute da lui e dagli altri gerarchi, che si sono così garantiti una vita agiata. Nella serie, inoltre, la principessa Maria José parla apertis verbis del carrierismo del protagonista, arrivato a voler entrare nello stato di famiglia del re (brigando per ottenere il collare dell’ordine supremo della Santissima Annunziata) ed anche al telespettatore meno attento non sfugge la tracotanza dell’accordo con Galeazzo Ciano per gestire il governo del post-Mussolini.

Insomma, Dino Grandi per il regista non è affatto il “cavaliere bianco”, ma un fascista con tutte le sue meschinità, nonostante, certo, la sua arguzia e il suo aplomb da ex ambasciatore nel Regno Unito gli diano una caratura diversa rispetto ai caricaturali Mussolini e Hitler, forse eccessivamente “piatti” come personaggi anche per uno sceneggiato nazional-popolare.

La serie, dunque, non minimizza affatto il disastro della dittatura fascista ma mette in luce al vasto pubblico dinamiche e soggetti finora confinati ai libri di storia contemporanea.

Tra i vari elementi che si potrebbero citare, particolarmente interessante a giudizio di chi scrive è la capacità del regista di descrivere il ruolo del cosiddetto deep state anche nel contesto di un regime totalitario a partito unico.

Ancora troppo spesso, infatti, si tende a pensare che la politica si svolga tutta tra il Parlamento e le piazze, reali o virtuali (come i talk show e i blog): “La lunga notte”, al contrario, ci mostra un volto discreto della politica, fatto di incontri riservati ed equilibri. Lo stesso Dino Grandi fa di tutto per accreditarsi presso il re come un uomo di “stato profondo”, fascista solo per necessità e convenienza.

Non era la prima volta che la Rai recentemente metteva sullo schermo questi meccanismi del potere: lo si era visto anche in “Esterno notte” di Marco Bellocchio, presentato su Rai1 all’incirca un anno fa. Lì, tuttavia, la vicenda del rapimento di Aldo Moro e il ruolo del deep state erano stati trattati in maniera assai tendenziosa e, per quanto avvincente, la verosimiglianza era assai inferiore a quella che si può riscontrare in “La lunga notte”.  Se in quest’ultima, infatti, si riprendono le parole quasi esatte pronunciate da alcuni protagonisti in quei drammatici giorni (ad esempio nel momento dell’arresto di Mussolini), in “Esterno notte” il cilicio indossato da Paolo VI ed il vomito di Andreotti alla notizia del rapimento di Moro non rendono giustizia della statura mantenuta da entrambi in quel difficile frangente di attacco in seno allo stato.

In conclusione, “La lunga notte-La caduta del Duce” sarà pure una miniserie che non raggiunge la qualità delle produzioni a soggetto storico britanniche come “The crown” o internazionali come “I Medici” ma ha il pregio di far conoscere, con un certo grado di obiettività e senza indulgere troppo in scene melense o violente, le vicende di una pagina complessa della storia del nostro Paese, per troppo tempo rimaste un tabù o trattate sotto una prospettiva ideologica.

Alberto Lorenzet

Classe 1997, dopo il liceo ginnasio a Conegliano laureato con lode in Chimica Industriale all’Università “La Sapienza” di Roma. Alumnus del Collegio della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, premiato come “Laureato Eccellente” dell’anno 2021, lavora attualmente presso EssilorLuxottica come ingegnere di produzione nell’ambito dei trattamenti superficiali. 

LinkedIn: Alberto Lorenzet

Indietro
Indietro

Il corpo come vestigia di sacralità

Avanti
Avanti

Una prospettiva sul rapporto tra natura e architettura